Lavoro in nero, paga base sempre diversa e tante mansioni differenti richieste dalle famiglie: babysitter, cuoca, donna delle pulizie. Il lavoro delle babysitter, nel nostro paese, è inserito nel contratto collettivo nazionale del lavoro domestico, ma spesso chi cerca questa figura non la regolarizza e ne richiede alta professionalità, anche al di fuori del lavoro di cura per bambine e bambini. A questo si unisce la difficoltà delle famiglie nel riuscire a far fronte a una spesa che può intaccare pesantemente l’economia familiare, senza agevolazioni da parte dello Stato.

Le storie e i dati

Laura, per quindici anni, ha lavorato per la stessa famiglia come babysitter: «Me li aveva presentati una mia cara amica che, sapendo che cercavo lavoro come babysitter, mi ha segnalata a questa famiglia che cercava un aiuto per i loro due figli». Laura racconta a Domani: «All’inizio ero felice, andavo d’accordo con i bambini e anche con la famiglia, ma dopo un po' ho iniziato a sentire un peso perché desideravo avere un contratto, che significava per me contributi e poi una maggiore sicurezza perché, se qualcosa fosse andato storto, avrei avuto minori tutele. Dopo anni di questa situazione, ho deciso di licenziarmi».

Non è stato facile prendere quella decisione, perché «dopo così tanto tempo mi ero affezionata ai bambini, ma dovevo pensare a me stessa e al mio futuro. Mi sentivo sfruttata, non tanto per il lavoro che facevo, che amavo, ma per la mancanza di diritti che avrei dovuto avere».

La storia di Laura è una storia di lavoro sommerso, che riguarda molte altre lavoratrici del settore: un lavoro che si affronta con passione ma anche con bramosia di diritti, spesso disattesi.

Uno spaccato della situazione attuale, lo forniscono anche i dati dell’ultima ricerca di Nuova Collaborazione, associazione nazionale datori di lavoro domestico. Dalla ricerca emerge che soltanto il 36 per cento delle babysitter è assunto con un contratto regolare, principalmente per la natura personale del rapporto, spesso di conoscenza diretta, o per il limitato numero di ore di lavoro richieste. Il modello prevalente resta quello di collaborazioni saltuarie e poco strutturate, con la ricerca della babysitter che avviene attraverso reti di conoscenze e amicizie.

Tuttavia, quando il supporto è più continuativo, pari al 22 per cento delle famiglie che impiegano babysitter, la tendenza a formalizzarlo aumenta, con una percentuale di contrattualizzazione pari al 63 per cento. Dal punto di vista economico, la ricerca ha sottolineato come il 91 per cento si dichiari favorevole a ricevere detrazioni totali per questa spesa.

Proprio su quest’ultimo tema l’avvocato Filippo Breccia Fratadocchi, vicepresidente di Nuova Collaborazione, afferma che, da parte dello Stato, sussiste «la mancanza di interventi di welfare strutturati e duraturi in favore delle famiglie. Ecco perché continuiamo a ribadire la necessità di politiche di defiscalizzazione del settore del lavoro domestico che è diventato ormai fondamentale nella gestione e nella cura di tutti i nostri cari».

Welfare sulle spalle di famiglie e lavoratrici

Nonostante la babysitter, con il suo lavoro, sia una figura inquadrata dal contratto nazionale del lavoro domestico, è assai faticoso trovare un sindacato che se ne occupi direttamente: è sì una figura ricercatissima, ma per la maggior parte non contrattualizzata e che spesso non si riesce ad intrecciare nella rete di aiuto del sindacalismo confederale.

Le vertenze della categoria, però, sono iniziate, come spiega a Domani Tiziano Trobia, sindacalista delle Clap, Camere di lavoro autonomo e precario di Roma: «Nel lavoro delle babysitter si concentrano una serie di problemi che andrebbero affrontati tutti insieme: problemi legati al contratto di lavoro ma anche di come, in questo paese, si intenda il lavoro di cura».

Il mondo delle babysitter «vive quasi totalmente di lavoro in nero». La percentuale delle babysitter contrattualizzate che emerge dallo studio di Nuova Collaborazione, per Trobia, «è molto alta rispetto a quello che noi vediamo con i nostri sportelli del sindacato. Non si tratta, secondo noi, solo di babysitter ma di figure contrattualizzate che svolgono vari ruoli: pulizie, accompagnamento e cura dei minori, cura della famiglia». Dunque persone assunte per professionalità più ampie, «che vanno ad alzare la percentuale di contrattualizzazione di questa figura che, secondo noi, ha una percentuale di assunzione molto più bassa».

È un lavoro difficilissimo da inquadrare, continua Trobia. «Noi, come Clap, abbiamo introdotto una campagna sull’introduzione dell’equo compenso, con una soglia di almeno dieci euro l’ora». Una campagna che verte all’eliminazione del lavoro nero: «Su questo c’è indubbiamente la necessità di sollecitare degli interventi e politiche pubbliche» che sopperiscano alle difficoltà della categoria e delle famiglie. «L’attacco al welfare finisce sulle spalle delle famiglie e quindi ci sono assunzioni in nero o collaborazioni con le babysitter sulle quali si scarica il peso di un lavoro non tutelato. Le famiglie non hanno i soldi per pagarle adeguatamente, ma comunque richiedono figure super qualificate».

A questa figura, inoltre, si richiede una grandissima elasticità, sia per orari che per le varie mansioni da svolgere e «gli stipendi non sono mai adeguati». I problemi sono tanti e si incrociano con una necessità di intervento dello Stato, come dichiara Trobia a Domani: «Bisogna affrontare il problema o con detrazioni o con altre forme di finanziamento diretto per poi pagare il lavoro di babysitting, come molti altri paesi europei». Sussiste anche un problema legato al salario e alla giovane età di chi si avvicina a questo lavoro. Queste lavoratrici, secondo Trobia, più sono giovani meno riescono a contrattare uno stipendio adeguato «Da noi arrivano baby sitter che prendono, in nero, 7 o 8 euro l’ora. Hanno estrema necessità di lavorare, per cui accettano quelle cifre con la speranza di poter lavorare molte ore».

La differenza tra lavorare in nero rispetto al lavorare con un contratto riguarda, innanzitutto, la questione dei contributi: «Ma anche la copertura della malattia, le ferie, i permessi, la tredicesima. Magari in nero paghi 50 centesimi in più, ma non paghi e non copri tutto il resto». La difficoltà legata alla possibilità di organizzare vertenze collettive con queste figure, per Trobia, riguarda «la natura stessa del lavoro, che si svolge in casa. Come tutti i lavori che si svolgono nelle mura domestiche è complicato dimostrare quanto tempo io abbia lavorato per te e cosa effettivamente stessi facendo per la famiglia. Ogni volta che iniziavamo a fare delle vertenze, i datori di lavoro dicevano “non faceva la babysitter, l’ha solo accompagnata a scuola” oppure “è venuta solo due volte” e dunque la durata di lavoro e le sue condizioni sono difficili da dimostrare».

C’è poi un punto importante che, per il sindacalista, riguarda un dato oggettivo nel rapporto tra lavoratrice e datore di lavoro: «La controparte non è una grande azienda ma una famiglia che, sbagliando, tenta di fare economia in una situazione in cui si fa fatica ad arrivare alla fine del mese, in cui spesso non ci sono alternative alla babysitter per poter andare a lavorare. Noi abbiamo pensato ad una campagna proprio perché il tema è anche culturale e deve riguardare l’organizzazione delle lavoratrici anche prima del rapporto di lavoro».

Trobia ricorda a Domani che nella manovra, al momento, non si sta parlando di agevolazioni fiscali per le famiglie che assumono babysitter e che «bisognerebbe aprire a contributi diretti e detrazioni per chi assume. Hanno tolto i voucher, non mi stupisce che non si contrattualizzino le babysitter. Dubito che ci saranno contributi o detrazioni, dato che si parla di andare a sottrazione su questi temi».

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