Circa l’80 per cento degli 8,5 milioni di caregiver familiari sono donne. Costrette a lavorare part-time o a non lavorare per niente. «Servono norme e risorse», dicono le associazioni. La situazione è frammentata: le regioni hanno emanato normative non omogenee
Carola ha 48 anni e vive da sola con la madre, persona con disabilità di 85 anni, di cui si occupa a tempo pieno. La presa in carico della persona è tutta sulle sue spalle, nonostante l’aiuto sporadico di qualche badante quando lei è al lavoro, sostenuta economicamente con un assegno di accompagnamento della madre che, però, «non è sufficiente. Durante la giornata io lavoro alcune ore, quando torno a casa ci sono sempre e solo io: tutti i giorni, compresi sabato e domenica. Nel caso di emergenze devo rientrare e gestirle».
La figura di Carola ha un nome: caregiver familiare. È una figura non ancora riconosciuta dallo Stato, spesso senza diritti e senza alcun tipo di compenso economico, nonostante il report di Cittadinanzattiva del 2023 ne contasse ben 8,5 milioni, in Italia, nel 2022. Persone che frequentemente rinunciano a spazi importanti della propria vita lavorativa, sociale e affettiva per prendersi cura delle persone care, anche fuori dallo stretto nucleo familiare.
C’è una fragilità di questa figura, legata a diritti mancati di cui spesso non si parla, come quello alla salute e al diritto al voto, come racconta Carola a Domani: «Abbiamo preso entrambe il Covid e mi sono dovuta occupare di lei che stava peggio di me», anche se ci dovrebbe essere un percorso di tutela tra Asl e servizi sociali, ma con un vincolo di Isee molto basso, al quale non è mai riuscita ad accedere.
«Ci sono problemi ai quali nessuno pensa: ad esempio il fatto che a mia mamma fanno i prelievi a casa, ma per me non sono previsti; come faccio a curarmi se devo lasciare mia madre sola a casa? L’ultima volta mi hanno fatto un favore e hanno fatto un prelievo anche a me», dice.
Le persone che svolgono la mansione di caregiver rinunciano a curarsi. Oltre alla salute, anche esercitare i propri diritti è un calvario, come quello legato al voto, «se capita una votazione di domenica non so come fare perché il voto a domicilio per la persona disabile è previsto, ma non per la caregiver, e dovrei lasciarla sola per uscire».
Su questi temi è stato pubblicato un progetto di ricerca dell’Iss (Istituto superiore di sanità) tramite il centro di riferimento per la Medicina di genere (Mege), dal titolo “Stress, salute e differenze di genere nei caregiver familiari”.
I primi risultati hanno messo in evidenza una distribuzione dell’attività di cura molto sbilanciata verso il genere femminile: circa l’80 per cento dei caregiver familiari sono donne, e anche la percentuale di tempo passata in un’occupazione lavorativa è a svantaggio delle donne, costrette a lavorare part-time, a ritirarsi anticipatamente dal lavoro o a non entrare affatto nel mondo del lavoro a causa del loro lavoro di cura. In tutti i casi le donne risultano penalizzate nella loro libertà di scelta.
A queste differenze si sommano le differenze di percezione dello stress: le donne caregiver percepiscono livelli più elevati di stress psicologico rispetto agli uomini, e agli alti livelli di stress è anche associata una maggiore frequenza di depressione e un numero maggiore di disturbi di salute, come ansia, insonnia, cefalee, alimentazione irregolare. Non considerare queste differenze e gli effetti che queste producono sulla salute, secondo lo studio, espone le donne ad allarmanti disuguaglianze di salute.
Verso una legge nazionale
Isabella Mori, responsabile tutela di Cittadinanzattiva onlus, insieme ad altre associazioni, partecipa al tavolo in cui si discute di una legge nazionale che si occupi di definire diritti e tutele per il caregiver familiare. Al momento, spiega Mori a Domani, «ci sono delle leggi regionali che riconoscono la figura del caregiver familiare, prevedono determinate tutele e anche, in parte residuale, dei piccoli compensi economici, in primis la regione Emilia-Romagna.
Questa figura è sostenuta, in parte, con normative come la 104 che prevede dei permessi sul lavoro, ma la situazione che abbiamo ora è di estrema disuguaglianza in tutto il territorio nazionale». La battaglia che sta facendo Cittadinanzattiva, insieme ad altre associazioni, è quella di far riconoscere la figura del caregiver familiare anche alle persone non conviventi, «perché oggi le situazioni sono molto diverse rispetto a trent’anni fa, i nuclei familiari si evolvono ed è possibile che ci sia un caregiver che non convive nello stesso nucleo familiare».
I lavori di mappatura intorno a questa figura fanno emergere come essa sia un tema di genere e di generazioni: sono quasi sempre le donne a dover rinunciare a lavoro e carriera (sia legata agli studi che al lavoro) per farsi carico della persona, e, in secondo luogo, perché è sempre più bassa l’età delle caregivers, un lavoro di cura e di tutela che inizia già dagli ultimi anni di scuola superiore.
Mori fa il punto sulla legge nazionale: «Entro l’anno in corso, si dovrebbe arrivare finalmente all’approvazione di una legge nazionale su questa figura», le richieste di Cittadinanzattiva per la costruzione della legge nazionale sono legate a «un riconoscimento quanto più ampio possibile di questa figura, allargando il riconoscimento a tutti coloro che svolgono un ruolo di cura nei confronti di una persona e che sono collegati a essa non soltanto con un vincolo familiare, ma da un vincolo anche amicale, e anche a coloro che non siano conviventi, non soltanto con tutele di tipo economico, ma anche con garanzia di tutele legate alla formazione e al sostegno psicologico».
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