Un esonero già scritto, l’annuncio della separazione con l’ex allenatore ancora negli spogliatoi nel dopo partita, ma già ex, la scelta del suo successore affidata a un’agenzia: la Roma dei Friedkin, cosmopolita nell’animo ed estremamente americana nel modo di agire, domenica ha aggiunto l’ennesimo capitolo al suo romanzo di (chi fa la) formazione.

Via Juric con la squadra sotto la doccia, così come era stato cacciato il rinnovato De Rossi appena prima di un allenamento, il tutto dopo il peccato originale dell’allontanamento di Mourinho: c’è qualcosa di Debord, in tutto questo, ma soprattutto nei pensieri e nelle parole (rigorosamente in francese, quello di Ghisolfi), nelle opere e nelle omissioni, si nota un algido distacco manageriale, vagamente padronale, all’insegna di nessuna empatia, ed è quello che in fondo ci urta, considerando che il calcio, da noi almeno, tutto è fuorché apatia e razionalità.

Non siamo abituati alle agenzie – CAA Base si chiama quella a cui è appaltata la scelta del nuovo tecnico della Roma – ma a persone e figure che scelgono, ai plenipotenziari in dirigenza, insomma a qualcuno a cui dare la colpa. Perché serve sempre uno a cui dare la colpa.

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I casting

Siamo abituati ai casting – e anche qui c’entra Debord, o forse è solo un modo per darsi un tono: c’entrano di più i reality show – di questo o quel dirigente, di questo o quel presidente. Aurelio De Laurentiis il momento della scelta lo ha fatto diventare una serie: incontri su incontri, con allenatori diversi e poi con lo stesso, quando inizia a piacergli, sino al lieto fine, al contratto e all’annuncio, che poi invero è un lieto inizio, perché non v’è certezza del domani.

L’ingaggio di Sarri, nel 2015, è diventato quasi leggendario. Cellino ha sempre scelto per intuito e per scaramanzia, Andrea Agnelli viene ricordato per la fermezza di quando decise di assumere Conte e per l’irremovibile veto che pose al suo ritorno nel 2019, quando l’antico affetto si era tramutato in antipatia nemmeno cordiale.

Berlusconi? Beh, gli bastò vedere il Milan battuto due volte dal Parma, una squadra di B, per ordinare di chiamare quell’omino calvo sulla panchina avversaria, Arrigo Sacchi.

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Le mode

Conta eccome, l’umore, così come contano le amicizie, il rapporto con quelli che ci mettono una buona parola, con i procuratori – e quante volte lo abbiamo visto – in un’ottica di do ut des, per non parlare poi delle mode, come quando, in un certo periodo storico, sembrava che tutti potessero diventare i nuovi Guardiola o i nuovi Zidane, gli idoli del campo catapultati nel ruolo di capo allenatore: quella della Roma fu la prima panchina vera e propria di Montella, la Juventus la prima di Ferrara e di Pirlo, il Milan la prima di Leonardo e Filippo Inzaghi.

Poi, certo, c’è l’aspetto economico, che spesso è l’abito di certe decisioni, ma viene dissimulato dal cappotto delle buone intenzioni, del progetto, dell’idea. Talvolta, invece, no.

Nell’estate del 2005, il Parma in amministrazione straordinaria, dove tutto doveva passare sotto un attento vaglio economico, affidò la panchina a Mario Beretta. Il presidente del club, Guido Angiolini, che nasceva non come uomo di calcio (di cui poi si sarebbe appassionato) ma uomo di conti, disse con trasparenza che Beretta «era quello che costava meno», e sembrò un ingenuo impeto di ribellione contro la retorica del pallone, anche se poi quella frase, per la quale in tanti lo avrebbero preso in giro, era vera per metà: Beretta, sì, era quello che costava meno, ma tra quelli all’interno della lista preparata dal direttore sportivo Oreste Cinquini, e non solo non sfigurò, ma fece anche più che bene con il poco che ebbe a disposizione.

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I nerd

Per questo, per tutto questo, un’agenzia sembra cosa dell’altro mondo. Eppure, allargando l’orizzonte, da anni c’è un club che cerca l’allenatore affidandosi all’intelligenza artificiale. Un database aggiornato, parametri definiti, richieste chiare e un algoritmo fa il resto: così il Liverpool chiamò ad Anfield Road Jurgen Klopp, che ai Reds ha segnato un’epoca, ed ecco allora che nessuno da quelle parti si è sorpreso quando, pochi mesi fa, il procedimento è stato ripetuto per definire il nome del suo sostituto e il cervellone ha scelto Arne Slot, olandese, ex allenatore del Feyenoord, cioè uno che non aveva l’aura da guru di un Arteta e di un Ten Hag, né il curriculum di un Emery o un Allegri. Ebbene: oggi il Liverpool è primo per distacco in Premier League e guida da solo anche la classifica unica della Champions.

Ma forse, chissà, tutto ciò ci stupisce proprio perché non vogliamo abbandonare la fantasia, il pensiero laterale, l’ispirazione del momento. Eppure prima dell’intelligenza artificiale, molto prima, poteva anche bastare un’inserzione pubblicitaria: è una vicenda di oltre cent’anni fa, ma la storia del Bologna probabilmente non si sarebbe mai riempita di gloria, se nel 1920 l’allora presidente Cesare Medica non avesse fatto pubblicare un annuncio a pagamento su un giornale di Vienna, rigorosamente in tedesco, in cui si cercava un allenatore «serio e intelligente, tra i 35 e i 45 anni».

Rispose, fra gli altri, un signore austriaco che di anni ne aveva qualcuno in meno, trentuno, ma alla fine convinse ugualmente Medica, che lo pagò anche molto bene per l’epoca. Evidentemente il requisito anagrafico non era poi così rigoroso, e a persuaderlo erano state principalmente le parole e il curriculum, insomma l’intelligenza naturale di quel signore. Il nome? Hermann Felsner.

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