Non si nasce campioni o sedentari ma lo si diventa. La spiegazione di come possa l’Italia essere al tempo stesso terra di atleti d’élite e di inattivi è tutta lì. Le ragioni del paradosso che caratterizza l’attitudine motoria del nostro Paese sta nelle potenzialità del verbo “diventare”, negli stimoli dati o negati, assecondati o rifiutati. Nasciamo con un corpo costituito da un sistema complesso di leve che il movimento lo produce ma di cui ha anche estremamente bisogno. Un bisogno essenziale al punto che, oggi, anche in campo nutrizionale prima ancora che sugli alimenti l’attenzione si pone sullo stile di vita attivo e l’esposizione solare, imprescindibili per stimolare la sintesi della vitamina D e la fissazione del calcio, indispensabili per diminuire l’incidenza di malattie metaboliche come il diabete (tipo 2) fino al 70% o per ridurre di un quarto le patologie cardio-vascolari, principale causa di mortalità con il 41% degli italiani tra 18 e 69 anni ad avere almeno tre fattori di rischio [1]. Nel tempo, urbanizzazione, industrializzazione e assistenzialismo tecnologico hanno depredato di stimoli motori spontanei il contesto e il modo in cui viviamo. Dunque il potenziale che separa l’essere dal divenire può portare ognuno a collocarsi in un qualsiasi punto che separa i due estremi (ovvero il campione dal sedentario). Dove esattamente dipende però dalle proprie caratteristiche e dalle opportunità di sviluppo motorio date o negate dalle due principali agenzie educative: famiglia e scuola.

Si recupera

Anche se non è mai troppo tardi, partire bene è fondamentale. Anzi, secondo molti studi, già lo stile di vita prenatale, in grembo materno, condiziona la salute futura del nascituro. Purtroppo però il 94,5% dei bambini/adolescenti italiani tra gli 11 e i 15 anni, è sedentario, peggior dato tra i Paesi OCSE. Tra gli adulti invece saliamo al quartultimo posto con una percentuale del 44,8% a dimostrazione che, evidentemente, maturità e consapevolezza cercano di aggiustare ciò che è andato storto prima. Si può recuperare certo, ma solo in parte. L’assenza di movimento adeguato nell’età dello sviluppo lo pregiudica dal punto di vista psico-fisico, compromette l’acquisizione di un vocabolario motorio e di uno stile di vita sano e attivo che sarà tanto più efficace quanto precocemente verrà interiorizzato. C’è una correlazione altissima tra stile di vita di genitori e figli. Come abbiamo visto, quasi un adulto su due è sedentario (44,8%) dato che, se scorporato per genere, pende a sfavore delle donne sempre più esposte a difficoltà economiche e, o di conciliazione tra ruoli professionali e di cura.

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Se a questo si aggiunge che il 20% delle famiglie italiane con minori a carico, risulta separata o divorziata (con tendenza di affidamento alla madre) è difficile immaginare una relazione virtuosa tra genitori e figli in termini di educazione al movimento. Anche il diffuso fenomeno dei figli d’arte, nell’agonismo di alto livello, è un rinforzo di questa correlazione. A partire dalla materna, il contributo che la scuola potrebbe apportare allo sviluppo tramite l’attività motoria sarebbe notevolissimo. Ma appunto sarebbe (tema trattato nell’articolo della settimana scorsa) perché, ad oggi, l’esperienza scolastica non è in grado di sopperire né quantitativamente né qualitativamente alla diminuzione di stimoli motori famigliari e ambientali. Attendendo che il recente inserimento dello sport nell’articolo 33 della Costituzione produca politiche attive, in questo scenario povero, c’è un’unica risorsa.

L’economia

Per chi se lo può permettere (e sembra che per almeno il 30% delle famiglie italiane il problema dei costi sia insormontabile) l’appiglio a cui aggrapparsi è offerto dalle circa centomila associazioni sportive nazionali. Per il 70% delle famiglie che non hanno difficoltà economiche si pone però il problema di scegliere il tipo di sport e di come organizzare i trasporti da e per il luogo di attività. Tendenzialmente i club non sono polisportive ma società affiliate a una federazione per la pratica di una specifica disciplina. I modelli scientificamente più validi, relativamente alle tappe dello sviluppo motorio, prevedono che fino ai 12 anni si pratichi attività multidisciplinare, polivalente e multilaterale.

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Dunque, in un’età in cui bisognerebbe provare tutto si è invece costretti a scegliere e a competere. Perché un altro punto critico nel sostituire lo sport scolastico con l’attività nelle associazioni è la pressoché impossibilità di praticare senza gareggiare. Non aiuta nemmeno il fatto che siano le stesse federazioni a preparare i propri tecnici prevedendo la formazione più lunga e approfondita per coloro che allenano le categorie agonistiche maggiori. Per lavorare con i più giovani basta il brevetto di primo livello, il più corto e semplice. La laurea in scienze motorie non è un prerequisito obbligatorio. Spesso perciò, a contatto con i più giovani ci sono i tecnici meno preparati. Ne consegue che sia alto il rischio di comportamenti inappropriati sia dal punto di vista metodologico che relazionale. E ciò costituisce un limite anche per chi scoprirà di avere talento e passione e vorrà intraprendere un percorso agonistico, perché anticipare la specializzazione vuol dire rischio di analfabetismo motorio di ritorno, di infortuni, di abbandono precoce: più ampia è la base motoria più alto può essere il vertice prestativo (Sinner docet poiché a 13 anni ancora si divideva tra sci, calcio e tennis).

Differenziare

Ma anche se hai la fortuna di avere una famiglia che ti permette di conoscere attività diverse, che ti porta ovunque sia necessario andare per praticare, che ti trova la società e gli educatori giusti, che copre le spese di tesseramenti, visite mediche, attrezzatura, trasferte, probabili infortuni ecco, nonostante tutte le migliori coincidenze e opportunità che il destino ti possa riservare, poi arriverai ad un bivio. Arriverà il momento di darsi un tempo entro cui intravvedere la possibilità di scoprire se ti piace gareggiare, se hai talento, se riesci ad emanciparti e sostenerti, a trovare chi crede e investe in te. Altrimenti non ti resterà che lasciare. L’attività praticata nelle associazioni sportive risponde al modello competitivo, perciò selettivo ed escludente. Negli sport di squadra si lotta per il posto da titolare, nelle discipline individuali per produrre risultati e guadagnarsi la qualificazione a livelli di competizioni sempre più elevati e così via. Lo sport agonistico non è inclusivo per niente, al contrario seleziona ed esclude. Se rifiuti questa logica non c’è alternativa. Non ci sono vie di mezzo. E’ molto raro infatti che, anche con i più giovani, l’attività praticata nelle associazioni sportive sia impostata sulla ricaduta pedagogica dello sviluppo delle capacità motorie. I club hanno bisogno di tesserati e successi per contare e campare: pur con le migliori intenzioni è questa la logica del sistema in cui sono inseriti. A rompere gli schemi ci hanno provato e ci tentano tuttora gli enti di promozione sportiva (Uisp, Csi, Endas, ecc.) ma la forza e la storia della loro rete non può sopperire alla mancanza dello sport libero, gratuito e disinteressato come potrebbe esistere unicamente gravitando nell’orbita delle istituzioni scolastiche. Solo agganciandole alla scuola, unica esperienza che ancora è aperta a tutti, la Repubblica potrà garantire quel valore educativo, sociale e di promozione del benessere delle attività sportive che, ad oggi, solo riconosce.


[1] Dati 2024 ISS. Tutti gli altri dati sono tratti dal report di sport e Salute “Rapporto Osservatorio Valore Sport” 2024

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