L’ultima sparata di Lollobrigida è contro la cannabis light: «Non punto a trasformare i nostri campi di grano, le nostre coltivazioni, in campi di cannabis light. Anzi, penso che possiamo sopravvivere anche senza. Se te la devi fa’ ‘na canna fattela bene, no?». Peccato che in Italia è illegale e che il governo più a destra della storia italiana è anche il più proibizionista. Tre le ultime proposte di legge per legalizzare la marijuana c’è quella depositata dal segretario di +Europa Riccardo Magi, ma il suo esito è già scontato. Mentre molti paesi nel mondo e in Europa, da ultima la Germania, si stanno muovendo in direzione opposta.

Al contrario l’Italia dichiara guerra a una sostanza che sotto una certa soglia di principio attivo è già legale. Una scelta che avrebbe enormi conseguenze anche da un punto di vista economico e occupazionale. Perché, nonostante la retorica del governo sul made in Italy, l’emendamento dell’esecutivo al ddl sicurezza – che vorrebbe vietare anche la cannabis con thc inferiore allo 0,2 per cento – impatterebbe enormemente su un’intera filiera esplosa negli ultimi anni. E che dà lavoro a migliaia di persone e che ha visto fiorire centinaia di nuove attività economiche.

L’emendamento del governo

La misura proposta dal governo lo scorso 26 maggio metterebbe fuori legge la coltivazione e la vendita della delle infiorescenze e dei derivati della cannabis, previste finora dalla legge 242 del 2016 e da alcune pronunce della Cassazione. A chi viola le disposizioni «si applicano le sanzioni previste» dal Testo unico sulle sostanze stupefacenti, parificando così la cannabis light a quella non light. Senza considerare che, secondo un primo studio pubblicato sull’European economic review nel 2019 sull’impatto della cannabis legale in Italia, è emerso che i sequestri di marijuana “illegale” dopo soli tre anni si sono ridotti del 12 per cento.

La Lega ha rincarato la dose, presentando un subemendamento che vieterebbe l'utilizzo di immagini o disegni che riproducono la foglia di cannabis, su insegne o manifesti, prevedendo il carcere fino a due 2 anni e multe fino a 20mila euro.

L’impatto sulla filiera

«Il settore della canapa industriale raccoglie ora 3mila aziende, più di 10mila operatori e un volume di affari superiore ai 500 milioni di euro», spiega Raffaele Desiante, presidente dell’associazione Imprenditori canapa Italia (Ici). «Quest’emendamento, così com’è presentato, porterebbe alla chiusura totale di questo mercato». Per le sue condizioni climatiche, l’Italia è già il «canapaio d’Europa», sottolinea Desiante, considerato che il 98 per cento della canapa prodotta nel nostro paese viene esportata all’estero.

Non è solo la vendita al dettaglio a venire travolta da un eventuale divieto, ma tutti i diversi settori: dalla produzione alla trasformazione, dalla logistica alla commercializzazione. E toccherebbe attività economiche avviate e composte principalmente da giovani e giovanissimi. «Il divieto non riguarda solo la cosiddetta cannabis light –  denuncia Beppe Croce, presidente di Federcanapa – ma andrebbe a colpire tutto il comparto industriale della canapa da estrazione».

Oltre ai negozi al dettaglio, verrebbero coinvolte tutte quelle aziende che lavorano con le sostanze attive cannabinoidi non stupefacenti (come il cbd o il cbg) e che estraggono dalle infiorescenze di canapa questi princìpi attivi. «Per usarli oltre che per uso ricreativo e nel campo medico – spiega Croce – anche in quello della cosmesi, degli integratori, dell’erboristeria». 

Gli agricoltori

Anzi, «le filiere che ne verrebbero colpite sono proprio quelle del florovivaismo, della cosmesi, erboristeria e integratori alimentari», sottolinea il Cia – Agricoltori italiani. E tra i più preoccupati ci sono proprio gli agricoltori, che ora rischiano di mandare in fumo anni e anni di investimenti. «Siamo agricoltori, non spacciatori», denuncia Jacopo Vladimiro Paolini, amministratore di Green Valley, azienda di Castelvecchio Subequo, piccolo paese dell’entroterra abruzzese in provincia de L’Aquila che ha acquistato terreni anche in Veneto, per un totale di più di 250 ettari coltivati.

Green Valley, come molte altre aziende agricole nate appositamente per coltivare e raccogliere canapa, è nata nel 2017 sulla scia delle opportunità aperte dalla legge dell’anno prima. «Prima dei prodotti a scopo ricreativo – spiega Paolini – la nostra attività principale è coltivare biomassa di cannabis sativa, utilizzabile in diversi settori: tessile, bioedilizia, alimentare, cosmetico, eccetera. E abbiamo clienti in tutta Europa, dalla Francia alla Spagna, dalla Germania alla Danimarca».

I timori di Green Valley sono quelli delle circa 800 partite Iva agricole del settore della canapa. «Viviamo in una valle di 2mila persone e diamo lavoro direttamente a 15 famiglie, oltre che a vari collaboratori. Se approvato, l’emendamento del governo sarebbe un enorme danno per l’attività ma anche per tutta la comunità circostante. Saremmo costretti a mandare all’aria nove anni di investimenti», sottolinea ancora Paolini. «Ogni anno riceviamo controlli dalle autorità: chi ci chiama “spacciatori” dovrebbe venire a visitarci», conclude.

Start-up 

Quello della canapa a scopo commerciale è un ecosistema fatto anche di centinaia di start-up, nella maggior parte dei casi messe in piedi da under 35. Tra queste c’è Cannabidiol Distribution, realtà che produce e distribuisce cannabis light soprattutto nelle tabaccherie, con più di 1.500 rivenditori in tutta Italia. «Quella del governo è una scelta ideologica e antiscientifica che avrebbe un grosso impatto su tutta una filiera che ha numeri importanti», denuncia il fondatore Luca Fiorentino, 28 anni.

«Il primo anno che abbiamo lanciato questo nuovo prodotto abbiamo avuto un boom, con circa un milione di euro di fatturato, ora tra produzione e distribuzione arriviamo a 500mila euro. Direttamente o indirettamente lavorano per noi più di 60 persone. Per queste politiche succede ora che tabaccai e imprenditori ci chiamano preoccupati. Se dovesse passare questa stretta sarebbero costretti a chiudere. E noi con loro», sottolinea Fiorentino.

C’è anche chi si è inventato un servizio di delivery specifico, sulla falsariga di quelli esistenti per il food e che, come per il cibo a domicilio, hanno avuto un boom durante la pandemia. JustMary – «il Glovo della cannabis light» – è nata nel 2019 per portare direttamente a casa erba legale e altri prodotti finora consentiti dalla normativa italiana. Ma mentre la società ha chiuso lo scorso anno con una crescita del 200 per cento rispetto all'anno precedente e sta per espandersi dopo la Francia anche nel Regno Unito, in Italia rischia di chiudere i battenti.

«Se approvato, l’emendamento lascerebbe senza lavoro dieci persone, tre agenzie esterne che ci seguono, e i tre fornitori che abbiamo. È davvero una brutta situazione», spiegano da JustMary. Il paradosso è che la società, che potrebbe essere costretta a fermarsi, gode ora di fondi statali finanziati con risorse del Pnrr. «Siamo beneficiari di un bando Simest dal valore di 60mila euro, e stiamo partecipando a un secondo per 140mila – spiegano dalla società di delivery –. Lo Stato prima ci finanzia e poi ci chiude».

Negozi al dettaglio

Ci sono poi gli shop. Secondo le stime esisterebbero in Italia almeno 800 negozi fisici. Non c’è solo la cannabis light, perché tra i banconi si trovano anche oli, tisane, cosmetici, ecc. Quello dei punti vendita è stato finora un percorso a ostacoli, fatto di incertezze normative da una parte e di divieti dall’altra. L’ultimo, lo scorso agosto, in un decreto del ministero della Salute che inseriva tra i medicinali soggetti a prescrizione medica anche le «composizioni per somministrazione ad uso orale di cannabidiolo ottenuto da estratti di cannabis». Nel concreto andava a vietare per gli shop la vendita di olio di cbd, usato per combattere insonnia e stress.

Il Tar del Lazio ha poi sospeso il decreto, ma resta l’incertezza per un settore che periodicamente finisce nel mirino del governo. «Il cbd rappresenta circa il 25 per del mio fatturato – spiega Annalisa Parini, titolare del negozio “Buenavita” di Milano – ma il governo non è riuscito a portare le evidenze scientifiche chieste dal Tar». Ma con l’emendamento al ddl sicurezza la stretta potrebbe essere quasi totale. «Se dovesse passare questa cosa mando all’aria anni di lavoro e chiudo tutto», denuncia Parini.

Ricorsi infiniti?

La legge del 2016, pur tra mille difficoltà e incertezze applicative, ha aperto la strada in Italia a un mercato che va ben oltre l’uso ricreativo e che riguarda anche semi, pasta, pane, oli, integratori alimentari, creme, resine, eccetera. Nel testo dell’emendamento si legge che le modifiche sulla disciplina sono necessarie «al fine di evitare che l’assunzione di prodotti da infiorescenza della canapa possa favorire, attraverso alterazioni dello stato psicofisico del soggetto assuntore, comportamenti che mettano a rischio la sicurezza o l’incolumità pubblica».

Ma già nel 2017 l’Organizzazione mondiale della sanità ha chiesto di declassare di pericolosità la cannabis, e un regolamento europeo in vigore dal 2023 ha innalzato allo 0,3 per cento la percentuale consentita di thc. C’è poi un un aspetto che ha a che fare anche con la concorrenza europea.

Nel 2020 la Corte di giustizia dell’Ue – esprimendosi su un divieto posto dalla Francia contro un’azienda della Repubblica Ceca che vendeva sigarette elettroniche a base di cbd – ha stabilito che «uno Stato membro non può vietare la commercializzazione di cbd legalmente prodotto in un altro Stato membro se estratto dalla pianta intera di cannabis sativa» perché sarebbe «una restrizione inutile alla libera circolazione delle merci perché la sostanza non rappresenta una minaccia per la salute umana», hanno concluso i giudici di Strasburgo. Per questo dai legali del settore sono già stati annunciati ricorsi e contenziosi.

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