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Luciana ha 21 anni, proviene dal Brasile da cui le viene chiesto di trasportare una valigetta in Svizzera. Il volo fa scalo a Fiumicino: il bagaglio, nel fondo di rivestimento, contiene cocaina. La ragazza viene arrestata e portata a Rebibbia.
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Un momento che lei non dimenticherà mai ma che ha potuto processare ed elaborare rivivendolo in un ambiente virtuale costruito ad hoc. Merito del progetto STEPs.
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Storie forti, affrontate dai protagonisti, interpretati da attori virtuali, in una sorta di metaverso. Un esempio di quello che il carcere dovrebbe essere: un luogo di rieducazione e reinserimento nella società. E la realtà virtuale sembra poter sostenere questo compito.
È la fine dell’estate del 2016: Luciana ha 21 anni, proviene dal Brasile da cui le viene chiesto di trasportare una valigetta in Svizzera. Il volo fa scalo a Fiumicino: il bagaglio, nel fondo di rivestimento, contiene cocaina.
La ragazza viene arrestata e portata a Rebibbia. Un momento che lei non dimenticherà mai ma che ha potuto processare ed elaborare rivivendolo in un ambiente virtuale costruito ad hoc. Merito del progetto STEPs, che ha coinvolto il Cpia1 di Roma, centro provinciale per l’istruzione degli adulti, e due partner europei, dalla Grecia e dal Portogallo, nell’ambito del programma Erasmus KA2.
Nelle vesti di Karla
Nel carcere femminile di Rebibbia, il più popoloso d’Europa, Luciana, giovane di origine brasiliana, che ha perso la madre a tredici anni e ha conosciuto suo padre solo pochi anni fa, ha deciso – sostenuta dalla professoressa Marina Tutino, che ha fortemente voluto il progetto STEPs nella struttura capitolina – di raccontare in forma scritta la sua storia, poi diventata materiale narrativo per una virtual room.
Indossando il classico casco della vr, Luciana ha rivisto sé stessa nelle vesti di Karla: ha rivissuto il momento dell’arresto così come, muovendosi nello spazio virtuale, i quadri prodotti durante gli anni tra le sbarre.
«L’immersione nell’ambiente virtuale», racconta Luciana a Domani, «è stata sia emozionante sia sconfortante. Ho visto la mia storia al di fuori: non mi aspettavo di vivere tante emozioni tutte nello stesso momento».
«All’inizio», aggiunge Tutino, «ha pianto e ci ha chiesto di interrompere il processo. Poi ha avuto il coraggio di proseguire».
Quel momento le ha marcato la vita ma ritrovarselo ricostruito e adattato, con un’attrice nei suoi panni, le è stato fortemente d’aiuto.
Racconta la professoressa Marina Tutino che Luciana «ne è uscita con nuove consapevolezze». Una sorta di elaborazione del trauma che le è servita a rifarsi una vita lasciando il passato alle spalle.
Ambienti virtuali
Ogni unità di realtà virtuale (vr) fornisce un quadro in cui il singolo prigioniero o ex-prigioniero può spostarsi fra gli ambienti virtuali con dispositivi specifici. Navigando per gli ambienti virtuali, gli utenti vedono una serie di elementi correlati al proprio profilo e alla loro storia. Di solito questi oggetti sono legati alla causa della prigionia, al reato: possono essere articoli di giornale, foto, narrazioni o video. Gli elementi esatti che si adattano al profilo dell’utente vengono selezionati e caricati nel framework dall’organizzatore della sessione.
Anche la storia di Mario, detenuto per sei anni e mezzo, nel carcere di Larissa, in Grecia, è diventata un plot per l’ideazione di un ambiente virtuale.
L’uomo, originario di un villaggio della Macedonia, si era ritrovato senza lavoro e con una poderosa somma da pagare per curare la malattia di uno dei figli. Disperato, una notte ha incontrato in un bar due truffatori che lo hanno coinvolto in una rapina. La polizia lo ha fermato, da lì è scattata una pena di quindici anni e mezzo, poi dimezzata per buona condotta.
Nella virtual room, anche Mario ha ritrovato sé stesso. E così anche per “Pistolas”, il nome con cui veniva chiamato dal suo boss, un giovane canadese, trasferitosi in Portogallo. A undici anni ha provato per la prima volta un mix di eroina e cocaina, si è unito al racket che lo ha fatto diventare “il pegno”. Colui che avrebbe dovuto rimanere in prigione per accontentare gli altri membri della banda.
Storie forti, affrontate dai protagonisti, interpretati da attori virtuali, in una sorta di metaverso. Gli utenti indossano gli occhiali e le cuffie vr e iniziano a interagire con l’unità tramite sensori portatili e interfacce utente dedicate. Possono scegliere un determinato oggetto e ascoltarlo, guardarlo o leggerlo. Possono muoversi all’interno della stanza fisica, dove è ospitata l’installazione, interagire con la stanza virtuale e con tutti gli elementi che vi compaiono.
L’unità vr monitora durante l’esperienza comportamenti e scelte dei partecipanti. Queste informazioni di tracciamento vengono caricate direttamente nella sottounità statistica della piattaforma e i dati sono disponibili per le successive elaborazioni.
Raccontare il reato
I plot per le virtual room nascono da racconti scritti dai detenuti delle tre carceri. «Ne abbiamo raccolte 61», prosegue Marina Tutino. «Da una didattica in classe, finalizzata al raggiungimento del diploma di terza media o alla conoscenza della lingua, siamo passati a un lavoro laboratoriale orientato allo storytelling. Un progetto che instaura relazioni molto forti tra insegnanti e alunni, l’empatia è tale che i detenuti trovano la forza di raccontare il reato commesso».
A Rebibbia, quella di Luciana è stata l’unica narrazione a diventare plot per l’immersione virtuale e la nascita di Karla’s Story.
La riabilitazione psicologica dei detenuti tramite la vr si ispira al teatro documentale ma soprattutto al “Rimini Protokoll”, un collettivo di scrittori e registi di Berlino, che lavora con varie forme teatrali al fine di ridurre o eliminare completamente la distanza tra gli artisti e il pubblico.
Le loro “situation rooms” riuniscono venti persone, provenienti da vari continenti, le cui vite sono state plasmate dall’uso delle armi, in un’ambientazione cinematografica che ricrea il mondo globalizzato di pistole e lanciagranate, autoritari e rifugiati, percorsi e incontri inaspettati.
L’ambiente è costituito da un enorme spazio con stanze autonome. Con le narrazioni personali dei loro “residenti”, le immagini iniziano a muoversi e gli spettatori seguono i loro percorsi individuali attraverso le loro singole fotocamere e cuffie. Cominciano a vivere loro stessi nell’edificio e si immergono per novanta minuti nella vita degli altri, seguendo la prospettiva personale dei protagonisti. Un po’ come è accaduto a Mario, Pistolas e Luciana.
La ragazza è ora fuori dal carcere, pian piano, dopo la detenzione e l’esperienza nella virtual room, ha cominciato a costruirsi una nuova vita: «All’inizio», racconta, «è stato un po’ difficile perché comunque tu hai l’impressione che ti possono giudicare per quello che hai fatto. Ma sono riuscita a mettere alle spalle questo pensiero ossessivo e sono andata avanti, ho trovato lavoro in un ristorante alla cucina, facendo vedere le mie capacità e oggi sono un aiuto cuoco a tempo pieno».
Un esempio di quello che il carcere dovrebbe essere: un luogo di rieducazione e reinserimento nella società. E la realtà virtuale sembra poter sostenere questo compito.
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