Sono ex edifici scolastici o palazzi realizzati con denaro della regione lasciati vuoti. Ora vi abitano famiglie con redditi bassi. Che temono il nuovo ddl Sicurezza
Sui cancelli d’ingresso dell’ex scuola dell’infanzia occupata di via Liberato Palenco, a nord di Roma, sventola una bandiera della Palestina. Dal cortile arrivano gli schiamazzi di una decina di bambini di origine senegalese. I genitori li guardano rincorrersi sui tricicli. Sono alcuni dei 60 nuclei familiari che a settembre hanno occupato il complesso abbandonato in zona Ponte Mammolo, dopo un primo presidio sotto l’assessorato alla Casa di Roma e uno sgombero dallo stabile scolastico Sibilla Aleramo.
Nella Capitale sono «7.400 gli occupanti senza titolo» del patrimonio Ater, di cui «3.600 hanno presentato istanza di regolarizzazione in sanatoria con legge regionale n. 1 del 2020». A dirlo è l’assessore alle Politiche abitative della regione Lazio, Pasquale Ciacciarelli. Nel corso del 2023/2024 – fa sapere – sono stati recuperati circa «560 alloggi su iniziativa degli utenti» e circa «330 alloggi attraverso procedure forzose con l’ausilio delle Forze dell’ordine».
Sul tetto dello stabile di via Palenco campeggia un telo bianco. «Riconsegniamo alla città i posti abbandonati dalle istituzioni», recita la scritta.
«L’età media delle persone che sono qui va dai 25 ai 45 anni, qualcuno viene dal Senegal e qualcun altro dalla Nigeria. Ma ci sono anche una quarantina di bambini», racconta Anna che, come attivista del Movimento per il diritto all’abitare, ha seguito la protesta dall’inizio. Vive in una casa popolare a Primavalle, a Roma, ma per otto anni ha vissuto nell’immobile occupato di viale del Caravaggio, nell’area sud della Capitale. Gli inquilini di via Palenco fanno i lavori più disparati, «ma tutti precari.
Comunità
C’è chi fa le pulizie e chi vende oggettistica. Ma la retribuzione non basta a pagare l’affitto», spiega Anna. Nelle prime settimane «le famiglie dormivano sui materassi disposti nell’atrio e poi sono riusciti a ricavare spazi in cui vivere. Alcuni cucinano sui fornelli elettrici, ma tanti vanno a mangiare alla Caritas», racconta ancora.
Nell’occupazione si seguono ritmi collettivi: «Le decisioni si prendono insieme durante le assemblee settimanali. Per le pulizie facciamo i turni, ma alla spesa ognuno pensa per sé», spiega Anna. Su un muro è affisso un cartello: «Si cucina fino alle 21 e non oltre», recita la scritta. Per Anna le occupazioni sono una protesta contro sfratti e sgomberi: «Non lo facciamo perché ci piace, ma per reclamare i nostri diritti: case popolari, un lavoro migliore e stipendi dignitosi».
L’artico 10 del ddl Sicurezza approvato alla Camera e in discussione al Senato prevede una reclusione da due a sette anni per occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui e «ci pone alla stregua dei delinquenti che occupano case popolari già abitate. Ma non facciamo lotte tra poveri». A dirlo è Arnaldo, un uomo sulla settantina in pensione.
Dal 2007 abita in uno dei 30 appartamenti da 40 metri quadri della palazzina occupata in via Gian Maria Volontè, a pochi passi dal centro commerciale Porta di Roma. L’edificio è stato costruito da una cooperativa sociale con i fondi della regione Lazio allo scopo di realizzare un centro per anziani. Ma dal 2005 al 2007 è rimasto vuoto. Oggi ci vivono una settantina di persone in emergenza abitativa, di cui 15 sono minori. «Io ho sempre lavorato», dice Arnaldo, che prima faceva il falegname.
Trasformazione
«Quando mi spostavo a 120 chilometri da Roma guadagnavo 70 euro al giorno. Se non mi fossi stabilito qui, ora vivrei per strada». Alla sua sinistra c’è Luciano, prima di trasferirsi in via Volontè dormiva in macchina insieme a sua moglie e a sua figlia. «Appena saputo dell’esistenza di questo stabile siamo arrivati», ricorda Luciano.
Le sue parole rimbombano tra le mura dell’androne d’ingresso, ora vuoto, che per le prime settimane di occupazione è stato una distesa di materassi e coperte. «Dormivamo nell’atrio, pronti a eventuali sgomberi, e dopo siamo saliti di sopra», racconta. Poi si difende dalle accuse di chi li tratta come sfaticati: «La gente pensa che occupiamo perché non ci piaccia lavorare, ma non è così. Oggi ho 65 anni, ma solo dieci di contributi».
Il cancello d’ingresso blu del palazzo occupato di via di Casal Boccone, a nord di Roma, è ancora addobbato per le feste natalizie. “Blocchi precari metropolitani”, si legge su uno dei muri che circondano il viale di accesso alla ex Casa di riposo dove oggi abitano 170 famiglie. «Quando siamo entrati il posto era disabitato», dice Madalina, una donna romena sulla quarantina.
«Occupammo nel 2012, nella settimana di mobilitazione nazionale organizzata dai Movimenti per l’abitare per la riappropriazione di stabili dismessi. Dopo il presidio nel cortile, a cui parteciparono circa 500 persone, andammo a dormire nel teatro. Adesso ognuno ha un locale per sé». Anche qui il tempo è scadenzato da ritmi collettivi. «I turni delle pulizie si decidono durante le assemblee, ma si fanno sempre di domenica. I lavori di manutenzione li discutiamo insieme e ognuno paga la sua parte», racconta Madalina.
Garantire il diritto alla casa per tutti, frenare la gentrificazione. Sono questi alcuni dei principi su cui si fonda la lotta del Movimento per il diritto all’abitare. «Vogliamo il recupero e la trasformazione degli spazi occupati in case popolari», dice Simona, che dal 2004 vive in uno degli appartamenti delle palazzine occupate di via del Casale de Merode, a Roma. «Al nostro arrivo erano vuoti, reduci da una speculazione.
Ma oggi ospitano 60 nuclei familiari», spiega Simona, per cui il ddl Sicurezza «attacca le fasce più deboli. I disagi vengono visti come un’emergenza alla quale rispondere con sanzioni punitive, ma andrebbe indagato il nocciolo del problema: la mancanza di case popolari in quartieri provvisti di servizi essenziali, come ospedali e linee dell’autobus», denuncia Simona, secondo cui «la legge ha una doppia ambivalenza: quando sbagli, ti colpisce subito, ma quando hai diritto a qualcosa nessuno te lo riconosce».
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