Quando si dice che «la scuola non è un parcheggio» si vuole sottolineare il valore sociale dell’insegnamento. Ma si dimentica che la scuola è anche un servizio necessario, specie per le famiglie svantaggiate. Ma nella galassia frastagliata dei centri estivi la qualità del servizio è lasciata alla discrezione di chi lo eroga, senza alcun controllo pubblico
La scuola non è un parcheggio. Detta con le migliori intenzioni questa frase viene pronunciata per sostenere l’importanza educativa e culturale di un luogo al quale la nostra società ha sempre fatto fatica ad attribuire il giusto valore.
All’ultimo posto dell’agenda politica, la scuola si è sempre dovuta accontentare di occupare nel dibattito del nostro paese uno spazio secondario. Tirata in ballo solo di fronte a emergenze, fatti di cronaca gravissimi, nei suoi confronti gli investimenti sono sempre stati insufficienti.
C’è però un fondo di classismo in questa affermazione perché la scuola è anche un servizio necessario per le famiglie che, a maggior ragione se si trovano in una condizione di svantaggio, hanno bisogno di poter contare su un aiuto.
Solo inquadrando quindi il tema della scuola all’interno di un terreno più ampio e mettendola in una relazione non di subalternità ma dialettica con la società nella quale opera, si possono evitare facili semplificazioni e impostazioni ideologiche che non aiutano ad affrontare contraddizioni molto più profonde.
Il tempo pieno è nato così. E seppure le contraddizioni dal punto di vista pedagogico ancora oggi, a distanza di cinquant’anni dalla sua istituzione, non manchino – seppure le illuminanti preoccupazioni di Bruno Ciari siano ancora attualissime, seppure solo due bambini su cinque nel nostro paese ne usufruiscano – nessuno si sognerebbe di metterlo in discussione.
Poi però arriva la lunga pausa estiva, determinata da un calendario sul quale si continua a discutere ma che nessuno trova poi di fatto la forza di modificare. E con il mese di giugno ci si presenta ogni anno uno scenario critico. Al quale si è cercato solo recentemente di dare una risposto immaginando uno strumento come il “piano scuola”, ma i progetti promossi nel tentativo di tenere aperte le scuole, si infrangono nella maggior parte dei casi con una realtà fatta di strutture fatiscenti, incapaci di ospitare i bambini e le bambine.
Alla chiusura della scuola quindi, nonostante gli anni passino e le promesse si ripetano, le famiglie possono ricorrere solo a una soluzione: quella della frastagliata galassia dei centri estivi.
A prezzi che possono variare, raggiungendo picchi di 200 euro a settimana, o essere più contenuti a seconda che venga servito un pasto freddo o precotto, che ci siano attrezzature sportive come piscine e campi, zone verdi o solamente distese di cemento, i bambini e i giovani adolescenti che non hanno nonni o seconde case al mare o in campagna dove trasferirsi, passano la prima parte delle loro vacanze in città all’interno di questi luoghi dove anche l’offerta delle attività può essere assai diversa.
Ad attività di carattere artistico, grafico pittorico, possono alternarsi attività più fisiche, sportive, con mini olimpiadi e piccoli campionati, produzione artigianale di medaglie e coppe da riportare a casa per dimostrare che non si è rimasti con le mani in mano per otto ore.
Si tratta di iniziative sulle quali il controllo pubblico è totalmente assente e la qualità del servizio lasciata alla discrezione di chi lo eroga. A strutture adeguate se ne alternano altre che invece non lo sono, a operatori competenti e qualificati, volontari o giovani praticanti spesso sottopagati ai quali è affidata una responsabilità educativa che non sono in grado di affrontare.
Sul fronte lavorativo si concentrano molte ombre, perché da un lato l’offerta dei centri privati, spesso sportivi, deve, all’interno di un’ottica commerciale sul lavoro, contenere maggiormente i costi, per massimizzare i profitti. Dall’altra, nel caso di associazioni che provano faticosamente a garantire un servizio alle fasce della popolazione più bisognosa, ci si ritrova a ricorrere al volontariato o a retribuzioni molto basse perché altrimenti le rette non sarebbero accessibili proprio a quelle persone per cui il servizio è pensato.
Il risultato è che uscire da questo labirinto sembra essere un miraggio. Gridare allo scandalo facilissimo, intervenire concretamente per porvi rimedio uno scenario assai lontano.
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