I giudici del capoluogo siciliano non hanno convalidato il trattenimento di cinque richiedenti asilo e contestano al questore di non aver motivato la necessità e la proporzionalità di una misura di ultima istanza. Non è automatico privare della libertà i cittadini di paesi di origine sicuri, ma bisogna prima applicare le misure alternative
Il piano del governo di trasferire la competenza dal tribunale di Catania a quello di Palermo, costruendo un nuovo centro a Porto Empedocle, non è servito. Anche la sezione specializzata del capoluogo siciliano ha bocciato in due sentenze l’impianto normativo costruito dall’esecutivo in materia di migrazioni.
Dopo le pronunce dei mesi scorsi che hanno messo in discussione il decreto Piantedosi in merito alle nuove procedure accelerate di frontiera, valutando le richieste provenienti dal centro di Pozzallo, questa volta sono stati i giudici di Palermo a non convalidare i trattenimenti di cinque richiedenti asilo, provenienti dalla Tunisia. Si trovavano da sabato scorso all’interno del centro di Porto Empedocle, aperto in fretta dal governo nella settimana di Ferragosto, come aveva rivelato Il Manifesto lo scorso 31 luglio.
In questo modo la magistratura ha messo in crisi anche il protocollo tra Italia e Albania che si fonda proprio sugli stessi presupposti, prevedendo il trattenimento e l’applicazione delle procedure accelerate alla frontiera per le persone provenienti dai paesi considerati sicuri, come la Tunisia appunto. I richiedenti asilo provenienti da uno dei ventidue stati inclusi nella lista, ampliata con un decreto a maggio dalla Farnesina, possono quindi essere privati della libertà personale. Ma, per i giudici di Palermo, il trattenimento deve essere motivato e applicato come una misura di ultima istanza. E quindi solo in assenza di misure alternative.
Obbligo di motivazione
Nelle pronunce del 27 agosto, infatti, i giudici della sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea del tribunale civile di Palermo hanno ritenuto «carenti» le motivazioni alla base del trattenimento dei cittadini tunisini disposte il 24 agosto scorso dal questore di Agrigento.
In particolare, in una di queste sentenze, che ha liberato un cittadino tunisino dalla struttura detentiva siciliana, la giudice ha sottolineato che «la facoltà di disporre il trattenimento rappresenta l’esercizio di un potere discrezionale, che va giustificato e argomentato, anche in considerazione della circostanza che la misura incide sulla libertà personale dell’individuo».
Si tratta di un passaggio fondamentale, di un’interpretazione in linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, secondo cui «il trattenimento va disposto soltanto nelle circostanze eccezionali in base ai principi di necessità e proporzionalità, come ultima risorsa, sulla base di una valutazione caso per caso sempre che non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive», si legge nella sentenza.
Il trattenimento non può essere inteso come un automatismo, ma esiste una «discrezionalità nell’esercizio del potere», prosegue la sentenza. Deve quindi essere considerato una «misura eccezionale» e, per questo, non è sufficiente, secondo la giudice, indicare il presupposto principale – «domanda di protezione presentata in frontiera o in zona di frontiera da un richiedente proveniente da paese sicuro» – ma occorre esplicitarne le ragioni, differenti caso per caso.
Extrema ratio
Non solo. Le misure alternative al trattenimento, sottolinea la giudice, sono un obbligo di cui l’autorità amministrativa deve tener conto, ma precisa che la consegna del passaporto – eventualità rara perché spesso le persone che attraversano il Mediterraneo sono prive di documenti – o la prestazione della cauzione non sono le uniche da prendere in considerazione. Ci sono ad esempio l’obbligo di dimora, dove la persona possa essere rintracciata, e l’obbligo di presentazione alle autorità.
Anche per questa ragione, dunque, cioè non aver valutato altre misure alternative non coercitive, il tribunale di Palermo ha ritenuto di non poter convalidare il provvedimento emesso dal questore di Agrigento.
Ma c’è di più dal punto di vista delle tutele che i provvedimenti disposti dai giudici palermitani accordano ai richiedenti asilo provenienti dai paesi di origine sicuri. Ed è quanto si legge in una seconda sentenza che ha rilasciato ieri un altro cittadino tunisino trattenuto nella struttura di Porto Empedocle, dove, scrive Il Manifesto, rimane reclusa una sola persona di origine tunisina, con problemi di salute, in isolamento tra sbarre e reti metalliche, perché per lui il tribunale di Palermo ha ritenuto concreto il pericolo di fuga.
Arrivata alla stessa conclusione, la seconda decisione ha evidenziato l’assenza di un «riferimento alla situazione individuale del richiedente protezione internazionale». Il questore non ha motivato adeguatamente il provvedimento, anche in considerazione del fatto che il richiedente asilo «ha dichiarato di volersi avvalere della garanzia finanziaria», e «che non risultano neanche decorsi i termini previsti dalla legge per poterla prestare», scrive la giudice.
Così, la non convalida dei trattenimenti apre una crepa, di fatto, nella gestione delle politiche migratorie dell’attuale governo. Un inciampo, fastidioso per la premier Giorgia Meloni e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che hanno progettato i centri in Albania proprio sullo stesso impianto normativo. A Shengjin e Gjader dovrebbero infatti essere portate le persone provenienti dai cosiddetti paesi di origine sicuri, a cui dovrebbero essere applicate le procedure accelerate di frontiera, le stesse cassate – nella loro applicazione – dai giudici di Palermo.
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