Immaginiamo che una persona migrante venga salvata nel Mediterraneo, in acque internazionali, da una nave delle autorità italiane, che provenga da uno dei paesi considerati sicuri e sia portata nel centro di prima accoglienza nel porto di Shengjin, nel nord dell’Albania, dove entreranno in funzione le strutture volute dal governo di Giorgia Meloni, costate alle casse dello stato quasi un miliardo di euro. Dopo essere stata sottoposta alle procedure di identificazione immaginiamo che questa persona venga portata al centro di Gjader, nell’entroterra, a circa 20 minuti di distanza.

Il soggetto ha il diritto di nominare un difensore di fiducia, o che le venga assegnato un difensore di ufficio, che la assista durante l’udienza di convalida del trattenimento. Tutto questo in un tempo molto limitato, entro 96 ore.

Come questo verrà assicurato non è chiaro a nessuno. Né è chiaro come verrà garantito il principio costituzionale previsto dall’articolo 24, secondo cui la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento e a tutti sono forniti i mezzi per potersi difendere. Come potrà nominare un avvocato di fiducia se non ha mai avuto un contatto con l’Italia? Come verranno gestite le comunicazioni tra il legale e l’assistito? E, ancora, come si garantirà la riservatezza dei colloqui e l’invio della documentazione?

A tutte queste domande non c’è ancora una risposta, nonostante il governo continui ad annunciare che l’apertura dei centri è imminente. Il primissimo termine del 20 maggio, che era stato indicato nei documenti del bando per la gestione, è stato spostato a luglio, poi al 1 e in seguito al 20 agosto, fino a una data indefinita, a causa «del caldo anomalo e delle condizioni geologiche del terreno», aveva detto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. In realtà, già all’inizio del progetto, il ministero della Difesa, come aveva scritto Domani, aveva previsto la fine lavori a Gjader a ottobre/novembre visto il luogo in decomposizione avanzata. Nei ritardi, si continua comunque a bloccare e criminalizzare il lavoro delle navi umanitarie: lunedì è stato infatti emesso il fermo amministrativo di 60 giorni per la Geo Barents di Medici senza frontiere.

Una garanzia formale

«Come verrà effettivamente garantito il diritto di difesa rimane un’incognita e vige l’indeterminatezza», commenta l’avvocato Salvatore Fachile, socio dell’Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione (Asgi). Sono molti gli elementi che suggeriscono che la possibilità di difendersi, garantita formalmente dal protocollo e dalla legge di ratifica, rimarrà solo sulla carta.

Il decreto del ministero della Giustizia pubblicato il 26 agosto in Gazzetta ufficiale prevede un rimborso spese fino a un massimo di 500 euro per i legali e i mediatori che devono raggiungere l’Albania qualora non dovesse funzionare il collegamento. La regola sarà quindi quella del «collegamento da remoto» con «modalità audiovisive». L’eccezione quella dell’incontro fisico tra l’avvocato e l’assistito.

Ad assicurare che il diritto di difesa sia tempestivo ed effettivo è incaricato il «responsabile italiano», si legge nell’atto di ratifica, senza altre precisazioni. «Viene affidato all’autorità amministrativa il compito di stabilire come sarà possibile esercitare il diritto di difesa», spiega Fachile, «e quindi il modo in cui l’avvocato si rapporterà con il proprio cliente». Un compito che non viene delegato a un soggetto terzo, fa notare l’avvocato, ma alla stessa controparte da cui la persona dovrebbe difendersi. E infatti il «responsabile italiano» dovrà mettere a disposizione un indirizzo di posta certificata per lo scambio di documenti e assicurare la riservatezza nel collegamento.

«Qualsiasi procedimento che implica la limitazione della libertà personale deve garantire la possibilità di individuare un avvocato di fiducia e, in assenza, uno d’ufficio», spiega Antonello Ciervo, avvocato e socio di Asgi. Probabilmente alle persone portate nel centro albanese verrà fornito elenco di avvocati iscritti nelle liste del gratuito patrocinio nel foro di Roma, tra i quali potranno scegliere, senza nessun criterio né possibilità di nominare una persona esperta in materia. «In base alla mia esperienza nei Cpr in Italia», prosegue Ciervo, «rischiano di essere sempre gli stessi soggetti a garantire solo formalmente la difesa di queste persone. E spesso non hanno nessun interesse a esercitare una difesa effettiva».

L’intermediario

La distanza fisica impone quindi che sia l’amministrazione a mediare tra l’avvocato e l’assistito, e «potrà – spiega Fachile – decidere i limiti dell’esercizio del diritto della persona e del suo legale. Tutto è affidato in maniera vaga a un impiegato della pubblica amministrazione». Si ribalta così la logica del processo, sottolinea Ciervo, perché «il diritto di difesa non dovrebbe essere condizionato alle esigenze o alle volontà del responsabile dell’amministrazione», ma il soggetto dovrebbe essere messo nelle condizioni di poter esercitare il proprio diritto. «Il rischio», prosegue, «è quello di andare verso una serie di convalide a catena e, soprattutto, di espulsioni collettive».

A peggiorare la situazione sarà l’isolamento delle persone che si troveranno nel territorio di un altro stato, reclusi, senza alcuna rete a cui far riferimento, sottolinea Fachile, senza poter ricevere informazioni da altri canali e soprattutto incontrare il proprio avvocato.

Incontro negato

Se la legge italiana prevede la possibilità che il difensore incontri l’assistito perché necessario per «esaltare quella fiducia che sta alla base del rapporto», evidenzia Fachile, «ed elaborare insieme una strategia difensiva», questo non è consentito per chi si troverà in Albania. Si troverà lontano dal proprio legale, che, in base alla legge di ratifica, «partecipa all’udienza in cui si trova il giudice», a meno che non ci siano problemi tecnici.

Anche in caso di problemi tecnici, come prevede il decreto del 26 agosto, non è scontato che l’avvocato riesca a recarsi nei tempi previsti in Albania. Uno spostamento che per Fachile «non è realistico». L’amministrazione deve rendersi conto dei problemi tecnici entro le 96 ore, comunicarlo tempestivamente all’avvocato, conferirgli l’incarico, e il legale dovrebbe essere pronto a partire in tempo per l’udienza. Non a Tirana, la capitale albanese, ma a circa 80 chilometri a nord.

Deve quindi prendere il volo, noleggiare una macchina, percorrere una strada spesso trafficata e arrivare nei container del sedime militare che le autorità italiane stanno adibendo a hotspot e Cpr. Se invece non dovessero esserci problemi tecnici, e quindi dovesse venire meno il rimborso, è improbabile che un avvocato si faccia carico delle spese per raggiungere le strutture. Spese che rischiano di superare i 500 euro.

Per alcuni difensori poi non ci sarebbe nemmeno la possibilità di incontrare il proprio assistito. «Un avvocato di origine straniera senza passaporto italiano deve chiedere un visto», segnala Fachile, «una richiesta incompatibile con i termini». Lo stesso vale per i mediatori, fondamentali per una difesa effettiva, che spesso non hanno la cittadinanza italiana.

«Un diritto si misura sulla base della sua effettività, non del riconoscimento formale», ricorda l’avvocato, lo ha stabilito anche la Corte costituzionale. Questi elementi però sembrano suggerire il contrario e considerare i centri albanesi zone di frontiera significa «che avviene tutto lontano da quello che è il controllo della società civile».

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