Quando la Roma fa la stupida e non solo per una sera, poi arriva Claudio Ranieri a farla ragionare, a rimetterla in riga, a darle il domani. Verrebbe da dire che il centro di Roma comincia a Testaccio in una macelleria – e che c’è di più romano? – dove tra una coratella e una fettina è cominciato tutto, oddio tutto, la parte, quella romana che sarva la Roma, e quindi sor, divenuto pure sir, Claudio Ranieri. L’uomo capace di passare tra due gocce d’acqua senza bagnarsi: classe, modi, toni da aristocratico romano, un principe venuto da una macelleria, quella der padre.

The butcher come Daniel Day Lewis in Gangs of New York è il custode della tradizione, l’uomo che sa sempre come e cosa fare quando si mette male, quando i nuovi padroni, non conoscono i nativi, era successo anche a James Pallotta nel 2019 e a Rosella Sensi dieci anni prima che, pur conoscendo i nativi, aveva scelto the butcher col pragmatismo delle donne.

Questa volta arriva dopo la buca Juric, una delle tante sulle strade de Roma, Dan Friedkin, il suo composito entourage e il suo l’algoritmo hanno risposto: Stacce. E stacce vor dì: Claudio Ranieri che, per amore di Roma e dei suoi ricordi, per spirito di servizio o solo per core è andato a Londra a prendersi l’incomodo, a capì de dille de sì.

La sua terza volta sulla panchina della Roma comincia in Inghilterra dove Ranieri si è tolto i panni dell’eterno secondo, dell’uomo delle semifinali, del perdente, dell’indeciso o forse più dell’inciarmatore avrebbe tradotto Ernesto De Martino, antropologo, era “Tinkerman” ai tempi del Chelsea perché non aveva una formazione titolare, e vincendo la Premier League con il Leicester divenne un nobile del grande calcio inglese.

Ma Ranieri vive tutto con grande distacco, calma, ironia e un pizzico d’emozione, capace di commuoversi, di comprendere, d’essere duro – citofonare Totti e De Rossi – avendone ragione, e di giocare davanti alla sconfitta e alla vittoria o alla seriosità delle conferenze stampa: come quando recitò una scena molto manfrediana nel 2010 prima del derby contro la Lazio rispondendo in inglese alla domanda di un giornalista norvegese su John Arne Riise, per poi tradurre ai giornalisti che chiedevano che cosa gli avesse detto con: «Gli ho detto la nostra formazione di partenza».

Insomma, l’uomo sa dominare, spostare, gestire. E la sua terza volta sulla panchina della Roma suona un po’ come la quarta di Franklin Delano Roosevelt alla Casa Bianca, almeno per Dan Friedkin. Anche se ai romani forse appare come un Giuliano Amato, l’uomo della provvidenza e della sussistenza, quello che deve risanare e rilanciare per poi lasciare.

Se Mourinho era apparso esuberante e romanizzato come Tomas Milian tra Corbucci e Amendola, Ferruccio grande regista di voce, e Daniele De Rossi era il Mastandrea arrivato troppo presto, ora Ranieri è un ritorno al padre, al Nino Manfredi, che può fare tutto, perché ha già visto e recitato tutto: lo sconfitto e il vincitore.

La storia della Roma di questi anni sembra davvero uscita dai film di Luigi Magni in un gioco di strappi e restaurazioni in un clima papalino. Così Claudio Ranieri è davvero come il monsignor Colombo da Priverno ne In nome del Papa Re, er firm de Magni, pur incarnando la vecchia Roma, è più moderna della nuova. È più aperto e pronto a governare la fase di dislocamento che dagli americani Friedkin passerà a un fondo o a chissà chi altro ancora, canterebbe Francesco De Gregori, perché di amore si tratta. Intanto gli tocca rimettere in ordine le cose, evitare il disfacimento e poi si vedrà.

«Sembra ieri che i leoni ce se magnavano ar Colosseo!». Perché Ranieri sa sdrammatizzare, dove gli altri ci appoggiano l’epica o la recriminazione, lui arriva liscio de fettina, a riderci. Con la campanella che tanto piaceva ai giornalisti inglesi, quando annunciava le cose importanti facendosi precedere dal suono – 'Dilly-ding, dilly-dong! – come se fosse messa o scola.

Ranieri sta tra la solennità della messa e l’utilità della scuola. Padre, cardinale e allenatore. È tutto cattolico-calcistico il suo percorso: comincia da portiere nell’oratorio di San Saba, poi diventa una bestemmia che gioca in attacco fino alle giovanili della Roma dove l’allenatore della Primavera, Antonio Trebiciani, lo mette sull’altare in difesa a fare il terzino.

«Sfilavi a tutto campo e in marcatura, / tenace e elegante, eri già un segno/ aggredivi e poi eri in copertura», così lo canta il poeta Fernando Acitelli. Più spirito che tattica. Un maestro zen che in panchina ha avuto ragione di tutto e tutti, senza inseguire le mode, né smettere i comandamenti avuti dal suo primo allenatore che chiamava maestro, Guido Masetti, comandamenti molto breriani: «Prima non prenderle»; secondo: «Averci uno davanti che lanciato sappia andare in porta», e terzo: «In mezzo ci deve stare un centrocampista che tiene er core e che corre due ere».

Tradizione, semplicità, elasticità e un pizzico di bellezza. Arriva, riassesta e lascia. Ecco the butcher.

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