Nel giro di una settimana, con due sole partite in panchina, ha rigenerato campioni spenti e portato subito un trofeo in società. Il nuovo allenatore portoghese ha già spazzato via le paure. La vittoria in Supercoppa sembra quasi un corollario. È un duro, le regole le impone lui. Un Milan a sua immagine e somiglianza, ecco cosa dobbiamo aspettarci. Paulo Fonseca, prima di lui, sembrava il quadro di un pittore umbro: equilibrio, austerità, serenità
Hasta la vista, baby. Terminator Conceição ha già spazzato via le paure e fatto centro nei cuori rossoneri. A Milanello il livello di testosterone s’impenna. La vittoria della Supercoppa Italiana, a Riyad, a nemmeno una settimana dal suo arrivo, sembra quasi un corollario. Il Milan è tornato diabolico. Merito del ghigno di Sergio Conceição, 50 anni, un uomo che sa piangere, emozionarsi, ma anche ballare sul mondo mentre si fuma un cubano. Sebastian Veron, che lo ebbe compagno ai tempi della Lazio, di lui ha detto: «Sergio è uno su cui puoi sempre contare».
Non c’è trucco, non c’è inganno. Conceição è un duro, le regole le impone lui. «I miei genitori erano duri, rigidi, soprattutto mio padre: raramente diceva a suo figlio che gli piaceva. Oggi dico spesso ai miei figli che li amo, ma è stato difficile per mio padre dirlo ai suoi otto figli». Il successo è rigore, disciplina, con un pizzico di anticonformismo. Per la maggior parte delle persone è normale vincere di tanto in tanto. Per lui no.
«Sono sempre stato così, competitivo, intransigente, anche nei rapporti con i miei amici e con la mia famiglia. Mi irrita quando le persone la pensano diversamente a questo riguardo. Sono molto onesto e franco, e quando le persone non sono disciplinate in quella onestà e franchezza mi irrito».
I suoi predecessori
Un Milan a sua immagine e somiglianza, ecco cosa dobbiamo aspettarci. Stefano Pioli era on fire (ma oggi è lui che dice «fa parte del passato») e Paulo Fonseca sembrava il quadro di un pittore umbro: equilibrio, austerità, serenità dell’espressione. Pure quando è andato via ha fermato l’auto, abbassato il finestrino, e si è sciolto in quel sorriso dolce: «Grazie a tutti».
Carino, un gentleman. Ma in Serie A ci vuole la cazzimma. Così sono andati a cercare l’altra faccia del Portugal, quella ruvida, tormentata, tumultuosa. Conceição era il profilo giusto. «Non mi piacciono quelle piccole bugie che sembrano carine per non ferire qualcuno. Sono così da quando ero piccolo ed è così che morirò», ha detto di sé. Sono i valori che gli hanno trasmesso da giovane, «libertà e responsabilità anche nelle difficoltà della vita».
E Sergio ne ha passate tante. Da ragazzo vide il padre morire, aveva sedici anni. «Per colpa di un incidente in motocicletta. Ero in uno dei bar del paese e mi hanno chiamato: quando sono arrivato, l'ho visto per terra, mi hanno portato via. Più tardi seppi che non era sopravvissuto». Da mesi cercavano di convincere il padre che il Porto era la squadra giusta per Sergio. «Lui non voleva. Finché non si è lasciato convincere ed è venuto con me a firmare il contratto: il giorno dopo è morto».
Le origini umili
Negli animi ribelli e tutti d’un pezzo c’è sempre la tragedia con cui si è fatto i conti. «Mia madre era su una sedia a rotelle, paralizzata da un lato, ed è morta due anni dopo, mentre giocavo già per il Penafiel, in prestito dal Porto. Pensavo di lasciare il calcio, non aveva senso, non ne avevo le forze».
Prima di diventare un milionario, Conceição ha incontrato la fame e compreso che nella vita, se te la vuoi cavare, ci vuole senso pratico. Il padre lavorava nei cantieri giorno e notte, Sergio lo aiutava in vacanza. Ha fatto di tutto: dal trasporto di secchi di pasta alla posa di mattoni. E il venditore.
«Vendevo vestiti con un mio cugino, che aveva abiti prêt-à-porter a Taveiro, una parrocchia nel comune di Coimbra. Facevamo delle fiere a Condeixa e Lousã e mio cugino voleva raddoppiarmi lo stipendio quando ha saputo che andavo al Porto». Sono queste le cose che Sergio si è sempre portato dietro nella vita. Le stesse che in qualche modo servivano al Milan. Il suo metodo di allenamento è comune alla categoria dei sergenti di ferro. Narrativa se ne trova quanta volete.
Ma Conceição è più di questo, è uno che scava. «Voglio sapere chi è stato il primo allenatore dei giocatori, se i genitori sono separati, se preferiscono i cani o i gatti».
L’empatia
Al Milan pare averli già conquistati tutti. Da Leão a Theo, gli stessi che con Fonseca rendevano così così. Mistero della fede. Calcistica, s’intende. E persino cuor di leone Ibrahimovic non ha avuto nulla da ridire: Conceição si è guadagnato il suo rispetto. È sempre stato così anche quando giocava.
Nella Lazio di Eriksson con cui ha vinto scudetto e coppe europee («Eravamo un gruppo non facile a livello di gestione, ma eravamo una famiglia quando scendevamo in campo per vincere») e nell’Inter, in nazionale, nei primi anni da allenatore.
Al Milan ha messo subito le cose in chiaro: «La pressione deve darci carica e non paura. Andrò avanti per la mia strada da subito. Il calcio è semplice, c'è una porta in cui bisogna segnare e vincere». Deciso, intransigente, sbruffone quanto basta. Quando diventò allenatore del Porto si presentò così: «Non sono venuto qui per imparare, sono venuto per insegnare».
Il Milan stava cercando uno così, senza fronzoli. Gli anni della pacatezza sono ormai finiti. «L’uomo portoghese ha qualità, ma oltre a queste bisogna aggiungere mentalità, forza, carattere», ha detto Conceição. Chi ci riesce è diverso, vive il calcio in modo diverso, anche se questo vale per tutti i settori. «E non ha nulla a che fare con i contesti sociali: che tu sia povero o meno è irrilevante».
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