Per avere un presente calcistico come quello del Liverpool bisogna aver compreso e giudicato il proprio passato. E avere dal passato una grande mano. Era difficile succedere a Jürgen Klopp – che si può dire secondo solo a Bill Shankly e Bob Paisley nella storia del club – e al suo ciclo di ricostruzione e vittorie praticamente senza mercato, e con una serie di scelte e condizioni e investimenti che solo a Liverpool sanno fare. E che nessuno si aspettava.

Ma ci sono riusciti e ora tutti sono meravigliati da Arne Slot. Tanto che si potrebbe fare un decalogo delle cose che nella città dei Beatles funzionano e in Italia no. Mica penserete che sarà l’aria? O la pioggia? C’entra anche il rapporto tra squadra e città che anche nei momenti bui e di cattivo calcio (con Roy Hodgson per esempio) non si sono mai incrinati, e che anche nei momenti di sconfitta di Klopp, una sorta di ferita luminosa, i tifosi non si sono mai distaccati, anzi come in un matrimonio con la squadra si sono fatti carico delle sere tristi e poi se ne sono ricordati nei momenti di gioia, e questa è una forza.

Trovano quel che cercano

Il calcio ha la capacità di far dimenticare tutto nel momento della vittoria, ma a Liverpool sanno tenersi, sanno ricordare, è come se non sprecassero quell’energia di felicità mettendone da parte un pochino per rendere meno amare le sconfitte, i campionati persi per un punto o le finali in Europa e in Inghilterra. Un uso sapiente del titolo. Per i tifosi del Liverpool la loro è sempre la migliore squadra da tifare, e questa che sembrerebbe una affermazione di Boskov come tutte le affermazioni del tecnico jugoslavo è una grande verità dietro l’apparente evidenza.

A Liverpool usano tanto l’algoritmo, dai calci d’angolo agli allenatori. Perché cercare due volte di seguito un allenatore con un elenco di richieste e delle precise caratteristiche – con l’aggiunta di quello che Simone Inzaghi gaddianamente chiama occhiometro – trovandone uno, entrato nella storia, Klopp, e un altro, Slot, che – per ora – gli sta in scia con brio, non era facile. O tengono dentro anche un parametro letterario tipo da Kipling a Valdano, il nostro allenatore deve essere uno da romanzo, oppure hanno un algoritmo che conosce bene il passato del club e la sua identità.

Prendere Slot, uno all’opposto di Klopp – calmo invece che elettrico, con uno spirito da rock progressivo sinfonico, uno che strappa sul ritmo, ma sa tornare alla melodia quando i ritmi si abbassano, rispetto al punk ossessivo dell’altro, ma con una continuità tattica – aveva fatto storcere il naso. Klopp ha messo in pratica Rainer Maria Rilke, un collega tedesco, che diceva che il futuro entra in noi molto prima che accada, e infatti a Basilea regalò la profezia della squadra meravigliosa e poi a Slot ha regalato il centrocampo che ora gli permette di essere primo in classifica in Premier e l’unica squadra a punteggio pieno in Champions. Con un gioco meno ossessivo e più ampio, che non ha rinunciato all’impronta kloppiana, ma l’ha diversificata.

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Il gioco nuovo

Slot veniva dal Feyenoord dove aveva fatto bene, era una promessa, ma nel passaggio inglese è apparso subito una sorta di Rafa Benitez, in pratica ha applicato alla sua vita e al gioco della sua squadra un tempo da film. Una estate. Il tempo di un aereo. Due scene d’allenamento. E una sequenza di gol e vittorie e titoli di giornale. Dove, sfogliando le pagine si trovano anche i mugugni di Beep Beep Salah (come lo chiamava Gianni Mura) e Trent Alexander-Arnold che però viaggiano in parallelo con le loro prestazioni da fare invidia.

In Italia chi usa l’algoritmo non trova Slot e chi ha giocatori senza rinnovo se li ritrova a calciare bottiglie con tempi da commedia più che da gegenpressing. La grandezza del Liverpool è stata quella di usare la transizione tra presente-glorioso, che stava diventando passato, in presente-futuro, capitalizzando tutto, anche le partite di FA Cup e Coppa di Lega dove Klopp ha fatto formare il portiere Kelleher regalandolo ora alla Champions di Slot in assenza di Alisson, e l’altro portiere futuro il georgiano Mamardashvili, sta in prestito al Valencia.

Non avere una Coppa nazionale classista come quella italiana, aiuta molto. Se immaginiamo il Liverpool come un ristorante stellato dove a un grande chef succede un giovane chef, al quale viene detto questa è la dispensa, capiamo. Il giovane chef prende Gravenberch e Jones, li alza dalla panchina e li mette nel menù principale, integrandoli con Mac Callister e Szoboszlai, che poi è la vera sorpresa del Liverpool di Slot che sta diventando il piatto della casa. I secondi in difesa sono tutti di carne, con Konaté, van Dijk, e l’alternanza dei terzini con Robertson e Bradley che vengono aiutati da Gomez e Tsimikas.

Mentre per il dessert o attacco c’è una rotazione perfetta: a parte Salah imprescindibile, Núñez, Gakpo, Díaz e Jota ruotano e segnano. Non hanno Mbappé, ma con cinque così si arriva lontano. In Italia con cinque così ci sarebbe un referendum prima di ogni partita. E un casino come contorno perché hanno il sesto, Chiesa, parcheggiato. Alla fine il Liverpool non si è scisso, non ha perso l’identità, ma ha solo cambiato testa. In Italia per cambiare testa a una squadra servono almeno tre esoneri, due moti di piazza, una santa inquisizione calcistica e tanto tanto dibattito. E pensare che basterebbe un algoritmo.

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