Dieci anni fa entrava in vigore il più importante strumento internazionale per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne: la Convenzione di Istanbul. È stata adottata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011 e, dopo essere stata ratificata da dieci stati, è diventata ufficiale il primo agosto 2014.

Prima c’erano state altre iniziative che si erano poste obiettivi simili, come la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (1979) e la Raccomandazione del comitato dei ministri agli stati membri sulla protezione delle donne dalla violenza (2002). Con la Convenzione di Istanbul però si sono compiuti passi ulteriori: è uno strumento giuridicamente vincolante in cui per la prima volta si stabilisce che la violenza di genere è una violazione dei diritti umani e che è un fenomeno strutturale derivato da secoli di dominazione maschile.

A dieci anni dalla sua entrata in vigore, però, in Italia non è ancora applicata correttamente in tutti gli ambiti.

Le quattro p

La Convenzione intende «proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica». I punti chiave si possono riassumere in quelle che vengono chiamate le “quattro p”: prevenzione, protezione, punizione e politiche integrate.

Negli 81 articoli che la compongono si regolano vari aspetti del fenomeno, dai servizi di protezione per le vittime (case rifugio, centri antiviolenza, linee telefoniche, consulenza psicologica e assistenza medica) alla necessità di includere nei programmi scolastici insegnamenti che riguardano l’uguaglianza di genere e i ruoli di genere non stereotipati.

Comprende anche la necessità di compiere una raccolta dati puntuale e periodica, la tutela nei confronti dei bambini, oltre che sanzioni e misure repressive. Infine, introduce una verifica annuale della situazione in tutti i paesi da parte del Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Grevio).

Chi c’è e chi no

La Turchia è stata la prima a firmare la Convenzione, ma nel 2021 è uscita dall’accordo. Per il governo di Ankara rappresentava una minaccia ai valori della famiglia tradizionale e incoraggiava il divorzio e l’omosessualità.

Anche Polonia, Ungheria, Bulgaria e Repubblica Ceca si sono opposte, o mettendola in discussione o non ratificandola. Un documento del Parlamento europeo elenca le motivazioni che hanno alimentato il dibattito in quegli stati: «La definizione e l’uso del termine “genere” nella convenzione; la disposizione che obbliga gli stati a introdurre l’insegnamento di “ruoli di genere non stereotipati” a tutti i livelli di istruzione; un presunto pregiudizio nei confronti degli uomini nonché la minaccia che questa porrebbe alla sovranità dello stato».

Negli anni i movimenti antifemministi, ultracattolici, antiabortisti e contro i diritti della comunità Lgbt+ si sono opposti all’accordo, facendolo diventare – ha scritto Politico – «una lotta per procura per le più grandi guerre culturali tra l’Europa orientale e occidentale».

L’Unione europea

Il primo ottobre 2023 l’Unione europea ha ratificato la Convenzione. Il procedimento per raggiungere questo risultato era iniziato quasi dieci anni prima, il 25 febbraio 2014, ma non è stato immediato proprio a causa dell’opposizione di alcuni paesi. La situazione si è sbloccata solo tre anni fa con una sentenza della Corte di giustizia che ha permesso di procedere a maggioranza qualificata e non all’unanimità.

È stato un segnale forte, ma per garantire «la piena protezione per le donne, gli stati che non hanno ratificato la Convenzione dovrebbero farlo» perché senza quell’ultimo passaggio sono vincolati solo ad alcuni obblighi.

L’applicazione in Italia

«È sicuramente uno strumento utile perché ha stabilito dei parametri. È come se desse una direzione, indicando gli step, i criteri e gli obiettivi per il contrasto della violenza maschile contro le donne. Su alcuni aspetti è stato applicato, ma c’è ancora tanta strada da fare», dice Elena Biaggioni, avvocata e vicepresidente di D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza.

I progressi non sono avanzati alla stessa velocità e con la stessa intensità in tutte le “quattro p”. Tanto resta da fare, ad esempio, in ambito di prevenzione. In Italia, secondo il rapporto delle “Italian women’s NGOs” coordinato da D.i.Re, «negli ultimi dieci anni solo il 13 per cento dei fondi stanziati dalla “legge sul femminicidio” (119/2013) è stato utilizzato per azioni di prevenzione». Con il governo Meloni, inoltre, i finanziamenti destinati alla prevenzione primaria sono stati ridotti del 70 per cento (da oltre 17 milioni nel 2022 agli attuali 5 milioni assegnati per il 2023).

Nella Convenzione si menziona la necessità di includere nei programmi scolastici «materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, la violenza contro le donne basata sul genere». Ma, al momento, i progetti attivi sono frutto di iniziative spontanee che partono da singoli insegnanti o singoli istituti, non c’è una politica educativa applicata ovunque nel paese.

L’Italia è uno degli ultimi stati membri a non prevedere l’educazione sessuo-affettiva, i programmi scolastici si concentrano unicamente sugli aspetti sanitari e biologici dell’educazione sessuale. Non c’è un approccio incentrato sul consenso, sulle relazioni, sulla pianificazione familiare.

Centri antiviolenza

Il numero dei centri antiviolenza e delle case rifugio è aumentato notevolmente negli ultimi anni, così come sono aumentati i fondi stanziati. Tra il 2013 e il 2023 il budget dei centri antiviolenza è cresciuto del 334 per cento, ma rimangono comunque realtà sotto-finanziate. «Bisogna continuare a investire rendendo quei finanziamenti strutturali per poter intervenire sul lungo periodo», continua Biaggioni.

Un altro problema riguarda la diffusione sul territorio. I centri, infatti, non sono localizzati in modo omogeneo in tutta la penisola, «ci sono alcune regioni in cui la distribuzione è capillare e altre in cui sono pochissimi».

Reddito di libertà

Secondo il bilancio delle associazioni del settore, «sono stati compiuti progressi significativi nella promozione del rafforzamento socioeconomico delle donne». In particolare, il reddito di libertà per le vittime di violenza è stato reso strutturale dopo la sperimentazione del 2020.

Anche in questo caso però le risorse non sono ancora sufficienti. Secondo gli ultimi dati disponibili, oltre 6mila donne hanno richiesto il sussidio, ma sono state accolte appena 2.772 domande. E anche per le beneficiarie il reddito spesso risulta troppo basso rispetto alle spese da sostenere (oltre a non tenere conto del variare del costo della vita delle differenti aree italiane).

I dati

Per inquadrare, conoscere, affrontare e fare un bilancio dei fenomeni è necessario quantificarli. «Nonostante ci sia stata un’accelerazione, mancano ancora alcuni dati, come quelli delle donne con disabilità», dice l’avvocata Biaggioni. Gli ultimi dati dell’Istat sul tema risalgono a ormai dieci anni fa ed evidenziano che tra le donne con disabilità il 36 per cento aveva subito una qualche forma di violenza e il dieci per cento era stata violentata.

Inoltre, spesso molte di loro – in particolare le donne con disabilità sensoriali – non riescono ad accedere ai servizi di sostegno perché non sono previsti linguaggi e strumenti adeguati (lingua dei segni, sottotitoli, descrizioni audio, formato Braille…).

Mancanza di cooperazione

Per contrastare la violenza maschile contro le donne è fondamentale che i vari organismi – magistratura, pubblici ministeri, forze di polizia, autorità locali e regionali, ong e altri enti e organizzazioni pertinenti – lavorino in modo sinergico.

In Italia però, si legge nel report coordinato da D.i.Re, «non esistono meccanismi standardizzati e adeguati che prevedano una collaborazione efficace. Non c’è ancora cooperazione tra i vari attori che dovrebbero formare una “cultura comune” nella lotta per fermare la violenza contro le donne».

Manca quindi, anche in questo caso, un approccio integrato. Solo con una visione strutturale, coordinata e attuabile sul lungo periodo sarà possibile mettere in atto tutte le indicazioni previste dalla Convenzione di Istanbul, proteggere le donne, educare generazioni di uomini consapevoli e, come recita l’articolo 1b, «eliminare ogni forma di discriminazione», promuovendo «la concreta parità tra i sessi».

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