Gli studi sulla violenza di genere e l’esperienza di ormai mezzo secolo dei centri e delle case antiviolenza mostrano con chiarezza come la dinamica del controllo e dell’abuso che può sfociare nel femminicidio origini dal desiderio di comprimere o sopprimere la libertà delle donne. Di fronte a un fenomeno endemico, destinato ad accentuarsi in circostanze critiche, ma non a sparire quando queste cessano, la risposta delle istituzioni è troppo debole
Era il 31 marzo del 2020 quando a Furci Siculo, in provincia di Messina, Antonio De Pace strangolava la fidanzata Lorena Quaranta, causandone la morte. L’intera Italia era un’unica grande «zona rossa» per lo scoppio della pandemia di Covid-19. E Lorena, studentessa in Medicina prossima alla laurea, adottava come tutti le misure disposte dalle autorità per la prevenzione del contagio, cioè restava a casa. In quella casa, però, ha perso la vita. Vittima, tra molte altre, della «pandemia nascosta» della violenza contro le donne per mano maschile – shadow pandemic l’ha definita Un Women.
Ora una sentenza della Corte di Cassazione la rende vittima una seconda volta, chiedendo di riesaminare il processo per tenere in conto la «specificità del contesto» in cui è avvenuto il femminicidio, in particolare lo «stato di angoscia» del quale il reo confesso era preda a causa del lockdown, per verificare l’applicabilità di attenuanti della responsabilità penale.
Vittime e carnefici
La sentenza, da molti definita «sconcertante», non rappresenta di certo il primo caso in cui una corte accoglie, almeno in parte, le ragioni dell’autore di femminicidio per giustificarne il comportamento. Colpisce, tuttavia, perché sembra tramutare il quadro di fattori aggravanti determinato dalla pandemia in possibili attenuanti, a beneficio di chi la violenza l’ha commessa, non di chi l’ha subita.
L’effetto dell’emergenza sanitaria sulla violenza di genere è stato ampiamente documentato: l’intensificazione dei comportamenti di controllo, l’aumento dei casi di maltrattamento fisico e psicologico, la recrudescenza della violenza preesistente nelle relazioni familiari, la crescita dei casi che hanno avuto esiti letali.
È avvenuto questo per lo «stato di angoscia» che attanagliava gli uomini nelle case? No. È avvenuto perché le donne hanno avuto, per diversi mesi, meno possibilità di sottrarsi a comportamenti violenti, di norma già in essere. Il contesto straordinario ha cioè causato l’amplificazione di comportamenti, purtroppo, ordinari. Con l’aggravante, se così si può dire, di aver colpito donne che, in osservanza delle norme, non potevano lasciare le loro abitazioni.
La dinamica del controllo
Gli studi sulla violenza di genere e l’esperienza di ormai mezzo secolo dei centri e delle case antiviolenza mostrano con chiarezza come la dinamica del controllo e dell’abuso che può sfociare nel femminicidio origini dal desiderio di comprimere o sopprimere la libertà delle donne, radicato nella cultura millenaria che ha costretto il «secondo sesso» di cui parlava Simone de Beauvoir a una posizione appunto seconda, inferiore, subalterna.
La violenza è al tempo stesso la manifestazione di questa ingiustizia millenaria, e il principale strumento per mezzo del quale gli uomini ancora oggi provano a impedire alle donne di essere riconosciute nella pari dignità di esseri umani, nell’autonomia di soggetti.
Le donne muoiono perché troppi uomini hanno ancora in odio la loro libertà. Anche il caso di Antonio De Pace e Lorena Quaranta sembra raccontare una dinamica in cui il senso di inadeguatezza di lui, infermiere, di fronte alla prospettiva di carriera di lei, aspirante medico, si è trasformata in prevaricazione e violenza.
Le donne muoiono, però, anche perché troppo debole è la risposta delle istituzioni, di fronte a un fenomeno endemico, destinato ad accentuarsi in circostanze critiche, ma non a sparire quando queste cessano.
La società dell’ingiustizia
La pandemia di Covid-19 ha reso evidente, in dimensione ingigantita e in forma simultanea, le ingiustizie che affliggono la nostra società anche sotto il rispetto dei ruoli di genere: dalla divisione sessuale del lavoro _ con il sovraccarico di cura che pesa sulle donne – fino appunto alla violenza che mantiene le donne in una condizione di paura, anche in quelle case dove vorrebbero sentirsi sicure.
E se questa esperienza fosse stata considerata dai poteri pubblici come un’occasione di apprendimento, anziché come una parentesi da chiudere al più presto, rappresenterebbe oggi lo sfondo condiviso per la costruzione di risposte politiche all’altezza della gravità delle diseguaglianze, delle discriminazioni, dei rischi per la vita.
Non è avvenuto. E la cultura pubblica delle istituzioni sembra, di contro, farsi più ostile alle conquiste di uguaglianza e libertà. L’ultima iniziativa del senatore leghista Manfredi Potenti per vietare il femminile delle professioni e delle cariche pubbliche, poi disconosciuta dai vertici del partito, racconta di un clima revanscista che desta preoccupazione.
Se mai lo sono state, le istituzioni sono sempre meno amiche delle donne?
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