La 30enne iraniana è arrivata in Italia con il figlio il 30 ottobre 2023 ed è subito stata arrestata perché accusata di aver fatto parte dell’equipaggio. Nell’udienza del 24 febbraio verranno sentiti i testi della difesa. «Dal processo sta emergendo la totale estraneità di Marjan», racconta il suo legale Giancarlo Liberati
Marjan Jamali è detenuta da oltre un anno, prima in carcere e poi agli arresti domiciliari.
Di fronte ai giudici del tribunale di Locri, la 30enne iraniana arrivata in Italia con il figlio piccolo e accusata di aver aiutato il capitano della barca – che dalla Turchia ha portato un centinaio di migranti sulle coste calabresi – ha chiesto durante l’udienza del 20 gennaio di attendere la sentenza da persona libera: «Non ho nessuna intenzione di scappare ma solo di attendere con fiducia la fine del processo», aveva affermato.
Lunedì 24 febbraio ci sarà una nuova udienza in cui verranno sentiti i testimoni della difesa, una coppia che ha viaggiato insieme alla donna e a suo figlio, partiti anche loro da Teheran. «Dal processo sta emergendo la totale estraneità di Marjan», racconta il suo legale Giancarlo Liberati.
Jamali è stata arrestata il 30 ottobre 2023 per favoreggiamento dell’immigrazione illegale, perché accusata da tre persone – su un totale di 102 passeggeri – di aver raccolto i cellulari prima della partenza. Per i magistrati italiani avrebbe svolto «mansioni meramente esecutive e di collaborazione nell’operazione coordinata da trafficanti attivi sul territorio turco». I tre accusatori sono poi divenuti irreperibili, subito dopo lo sbarco, tanto da rendere impossibile anche un incidente probatorio.
L’impianto accusatorio si regge proprio sulle dichiarazioni di queste tre persone che, oltre a non essere più reperibili (non è possibile quindi sentirli nemmeno nella fase dibattimentale), sarebbero gli stessi ad aver agito violenza sessuale su di lei. Lo ha raccontato la stessa Jamali, che ha sporto denuncia a febbraio 2024 per i palpeggiamenti subiti mentre dormiva sull’imbarcazione, durante i cinque giorni di navigazione verso l’Italia.
Ed è proprio a causa di una situazione di violenza domestica che la donna ha deciso di fuggire dall’Iran: «Il marito è una persona estremamente violenta», spiega Liberati, «e ha addirittura tentato di aggredirla con un coltello». Non poteva più continuare a vivere così e ha deciso di partire con il figlio.
Cosa non torna
Il viaggio dall’Iran all’Italia, passando per la Turchia, è costato 14mila dollari, 9mila per sé e 5mila per il figlio. «Ci siamo procurati la documentazione originale», precisa l’avvocato, «contattando direttamente l’agenzia di viaggio a Teheran “Ex Change Jvaherian”, che ha confermato l’autenticità del certificato».
Elementi che, per il tribunale del Riesame, non sarebbero dimostrativi «dell’avvenuta corresponsione di tale importo ai trafficanti». Per questo e altri elementi, come le dichiarazioni dei tre accusatori irreperibili considerate credibili e attendibili, i giudici del riesame non hanno revocato la misura cautelare, ma l’hanno sostituita il 27 maggio 2024 con gli arresti domiciliari, disponendo il braccialetto elettronico e il divieto di comunicazione.
Durante i mesi di carcere nel penitenziario di Reggio Calabria, la separazione dal figlio di 8 anni, che si trovava a due ore di viaggio, aveva creato dei «momenti di profonda angoscia con pensieri negativi e anticonservativi» e «vissuti depressivi con ideazione di morte», si legge nell’ordinanza di sostituzione della misura. Nonostante ciò, i magistrati avevano rigettato la richiesta di revoca della custodia cautelare in carcere.
Jamali è finita dentro una cella in Italia appena dopo lo sbarco. Sono però emerse diverse criticità nella raccolta delle prove, tra traduzioni approssimative e fuorvianti – il mediatore che ha tradotto le domande degli inquirenti non parlava la sua lingua, il farsi – ed errori nella trascrizione dei nomi di Jamali e del figlio nelle carte processuali. Non solo. Per molto tempo, durante la sua detenzione, le venivano notificati gli atti in arabo, una lingua a lei sconosciuta.
«Se avessero fatto all’epoca l’esame imputata e l’analisi del telefono, probabilmente il processo si sarebbe concluso molto tempo prima, permettendole di uscire dal carcere», conclude Liberati, che sottolinea come l’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione e l’aggravante introdotta con il decreto Piantedosi non colpiscano i trafficanti, «ma disgraziati che stanno sulle barche che non sono in nessun caso legati al traffico. Anche quando si prestano per vari motivi a guidare l’imbarcazione, o perché non hanno soldi per pagare la traversata o perché sono costretti o truffati, o per qualsiasi altro motivo».
Jamali si è sempre dichiarata estranea ai fatti – come aveva fatto Maysoon Majidi, l’attivista curdo-iraniana recentemente assolta per non aver commesso il fatto – ricordando di aver pagato migliaia di euro per il viaggio ed essere stata ingiustamente accusata da tre uomini che avevano prima agito violenza.
Voleva solo fuggire da un’altra situazione di violenza, domestica, salvare sé stessa e il figlio di 8 anni, e chiedere la protezione internazionale.
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