In fondo a un piccolo corridoio e dietro una scrivania bianca, circondato da tele, libri e fogli di carta che penzolano da ogni dove, si trova seduto Aladin Hussain al-Baraduni o Aladino, così come lo chiamano gli amici del quartiere romano di Centocelle. Aladin, artista originario dello Yemen, odora di vita vissuta come lasciano intuire anche i colori sgargianti e lucidi delle sue opere, esposte alla Biennale di Venezia nel 2016 e nel 2022.

Quadri che, al pari di chi li ha dipinti, di strada ne hanno fatta tanta prima di finire dentro una biblioteca “abusiva” diventata il punto di riferimento di un intero quartiere. «Vengo da una piccola città in mezzo al deserto, Dhamar. Un posto un po’ piccolo per contenere i sogni di un adolescente cresciuto con la ribellione nel cuore», dice Aladin con lo sguardo rivolto ad una tela contrassegnata da falcate di un azzurro che si fa via via più intenso.

Lo Yemen in cui cresce è schiacciato dalla dittatura del presidente Ali Abdullah Saleh, ucciso nel 2017 dagli Huthi. «Lo chiamavano ‘il danzatore sulla testa dei serpenti’ visto che per ragioni di comodo era disposto ad allearsi con chiunque. La mia però era una famiglia di dissidenti, a cominciare da mio zio Abdullah al-Baraduni, tra i poeti più noti del Paese.

Era cieco, viveva a Sana’a e quando andavo a trovarlo mi dettava le sue poesie e io le mettevo su carta. A casa sua si parlava di politica e tra i tanti che si recavano da lui c’erano anche Pasolini, Moravia, Calvino e Gontar Grassi».

Attratto da quell’ambiente, Aladin si trasferisce presto nella Capitale ed è lì che insieme ad alcuni artisti crea l’Atelier San’a, una bottega artistica dove si faceva letteratura e, soprattutto, critica politica al regime di Saleh. «Di giorno lavoravo al Ministero dei beni culturali insieme al ministro, poi la sera insieme agli altri cercavamo di raccontare la nostra società con tutte le sue contraddizioni. Mi limitavo a raffigurare la cruda quotidianità a partire da chi non aveva casa, dai bambini che lavoravano anche di notte».

La repressione del regime, inizialmente tollerante, si fa pian piano sempre più violenta. A notarlo, poco prima di morire nel 1999, è anche suo zio che nella poesia “Invasione dall’interno”, riferendosi alla città di Sana’a, scrive: «Chi ti ha occupato in segreto, invasori che non vedi, mentre il pugnale è già piantato nel mio cuore e lo conquista come il male che entra si insinua lento dal fumo del tabacco da una sigaretta che seduce, questo è l’atto di carità di un mostro».

Il viaggio

L’atelier viene chiuso e Aladin finisce più volte in carcere. La goccia che fa traboccare il vaso e che, per certi versi, segna la coronazione della sua carriera artistica è il premio che nel 2004 gli conferisce lo stesso Saleh come miglior pittore giovane del Paese.

Dopo averlo accettato, l’artista strappa pubblicamente il certificato guadagnandosi altri quaranta giorni di prigione e l’inserimento del suo nome nella lista nera. Ed è proprio qui che matura la decisione di fuggire dal Paese.

Arrivato in Italia, la sua richiesta di asilo politico viene rigettata. «Quei pochi soldi con cui ero partito sono finiti presto e così mi è restata solo la speranza. In strada ho imparato la lingua e non ho mai smesso di dipingere. Dopo aver girovagato un po’ per l’Italia, sono arrivato in quella Roma che conoscevo dai tanti libri che ho divorato a scuola. La più grande emozione è stata ritrovarsi davanti all’immensità delle sculture di Bernini».

Nella città eterna, insieme ad altri incontrati nel corso degli anni, occupa una palazzina in via dei Castani che da anni versava in uno stato di totale abbandono. Al suo interno c’erano solo calcinacci, lavandini rotti, marmitte usate… Qui l’emergenza abitativa si trasforma in emergenza culturale.

Un suo amico, conoscendo la sua passione per la storia, decide di regalargli più di tremila libri che aveva accatastato, tra la polvere, in cantina.

Spinto dall’esigenza di trovare un posto a quei testi, Aladin inizia a sistemare il primo piano dello stabile e, tra una mano d’intonaco e l’altra, prende piede l’idea di creare un luogo di incontro e aggregazione da donare al quartiere come quell’atelier che era stato costretto a lasciare a Sana’a.

«I vicini ci chiamavano gli abusivi e, proprio per questo, abbiamo deciso di chiamare questo posto “biblioteca abusiva metropolitana”. Volevamo far vedere che non tutto quello che è abusivo è negativo. Oggi la biblioteca ospita più di 40mila libri e oltre 300 opere d’arte di artisti di tutto il mondo che si affiancano a quelle realizzate dai tanti bambini che si divertono a mettere su carta e sui muri quello che gli passa per la testa», dice Aladin mentre si fa strada nei corridoi con in mano i diversi foglietti che custodisce gelosamente, forse più delle sue opere.

Resistenza

Sulla testa di Aladin, attualmente, pende una condanna a morte in Yemen e anche un’ordinanza di sfratto in Italia: il locale in cui sorge la biblioteca è stato appena acquistato. Nonostante questo, si dice fiducioso: «Sono arrivato qui senza nulla, rimpiangendo uno Yemen che non c’è più. Ho cercato di trovare una mia strada, un modo per uscire allo scoperto stanco di dovermi nascondermi. Se ne è valsa la pena? Abbiamo creato un grande luogo di ritrovo e condivisione per tutto il quartiere portando l’arte e la cultura tra le strade e la gente, dove è giusto che stiano. Tutto quello che abbiamo costruito non andrà perduto, visto che il Comune si sta già adoperando per trovare un nuovo spazio, riconoscendo il valore della biblioteca per il quartiere. Ci metteremo di nuovo a lavoro per creare qualcosa di ancora più bello».

E mentre dice questo, ci mostra la tela dove ha raffigurato la sua colorata Sana’a e poi una moneta d’argento. Su una delle facce, è ritratto il volto di quello zio da dove tutto è iniziato.

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