L’articolo 28 del disegno di legge, ora in commissione al Senato, prevede l’introduzione delle videocamere indossabili dagli agenti, senza però fornire dettagli. Rischia di essere «a tutela esclusiva delle forze dell’ordine», commenta Prencipe (Antigone) e per Renzi (Amnesty) «non aiuterà quindi a migliorare l’accountability delle forze di polizia»
L’Italia è uno dei sei paesi europei a non avere alcuna misura di identificazione per gli agenti impegnati in attività di ordine pubblico. Le conseguenze di una totale assenza sono emerse, in modo evidente, nei fatti del G8 di Genova nel 2001. Molti agenti che hanno commesso violenze e torture alla scuola Diaz sono rimasti impuniti perché non identificati, grazie a coperture sul volto e all’assenza di elementi identificativi sui caschi.
Se nel ddl Sicurezza, già approvato dalla Camera e ora in commissione al Senato, la maggioranza ha inserito l’uso delle bodycam, sui codici alfanumerici i partiti di governo sono stati categorici, così come i sindacati di polizia, da sempre contrari a queste misure considerate un modo per trasformare gli agenti in «bersagli». Dai primi tentativi nel 2001 ad oggi, il parlamento non è mai riuscito a introdurli.
«Senza misure di identificazione, come i codici identificativi, però», spiega Laura Renzi, campaign manager di Amnesty International, «le bodycam non sono sufficienti. Perché i cittadini non hanno la possibilità di risalire a chi si trovano di fronte». Amnesty porta avanti da anni una campagna per chiedere l’introduzione dei codici identificativi, numerici o alfanumerici. L’unica misura in grado di garantire l’identificazione, salvaguardare i cittadini e le cittadine contro l’uso illegale della forza e impedire l’impunità.
Le bodycam senza altre forme di identificazione e così come previste nel ddl Sicurezza rischiano quindi di diventare uno strumento «a tutela esclusiva delle forze dell’ordine» e non, come dovrebbe essere, uno «strumento a tutela principalmente dei cittadini e delle cittadine», spiega Pasquale Prencipe, membro dello staff di ricerca dell’associazione Antigone. Una lettura che è stata confermata anche dalle dichiarazioni del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che ha definito le bodycam «un doveroso riconoscimento» e una «più efficace tutela delle donne e degli uomini in divisa».
Il tentativo di offrire una tutela anche ai cittadini e permettere loro di ricostruire a chi appartiene la divisa che si ha di fronte lo ha fatto Riccardo Magi, deputato di +Europa. Il suo emendamento, che chiedeva di introdurre parallelamente alle videocamere i codici identificativi, è stato bocciato dalla maggioranza in commissione alla Camera.
Cosa sono
Le bodycam, telecamere che possono essere posizionate sulle divise degli agenti o sui caschi, possono essere uno strumento utile per riprendere e filmare eventuali aggressioni, sia nei confronti degli agenti, sia per documentare eventuali scontri, o ancora essere un ulteriore deterrente per l’agente nell’uso della forza.
Dispositivi che possono aiutare a individuare le eventuali responsabilità. Solo, però, se regolamentati e utilizzati in maniera corretta, scrive Amnesty, ad esempio se non ci sono interruzioni nella registrazione.
L’articolo 28
È l’articolo 21 del ddl Sicurezza a prevedere la «dotazione di videocamere alle forze di polizia». Il comma 1 e il comma 2 ne introducono l’utilizzo, mentre il comma 3 e 4 fissano la copertura economica.
«Il personale delle Forze di polizia impiegato nei servizi di mantenimento dell’ordine pubblico, di controllo del territorio e di vigilanza di siti sensibili nonché in ambito ferroviario e a bordo dei treni può essere dotato di dispositivi di videosorveglianza indossabili, idonei a registrare l’attività operativa e il suo svolgimento», recita il comma 1 dell’articolo. Il paragrafo successivo stabilisce poi che possono essere usati «nei luoghi e negli ambienti in cui sono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale».
Una norma «minimalista», la definisce Prencipe, che si limita a prevedere la dotazione. Dalla lettura del testo, «molto probabilmente non sarà un obbligo ma una facoltà, che lascerà una discrezionalità all’agente che indossa la bodycam», spiega. Non è chiaro poi se verrà esteso a tutte le forze dell’ordine, sottolinea Prencipe, e «non sappiamo come verranno raccolti i dati o come saranno gestiti».
Per Renzi è molto preoccupante «l’assenza di riferimenti all’applicazione: chi garantisce le modalità di utilizzo delle immagini registrate?». Per i cittadini non è esplicitato come consultare i video registrati, evidenzia inoltre Prencipe: «Quando si introduce una normativa così importante, devono essere poste basi solide». Non c’è dubbio che sarà necessaria una regolamentazione più dettagliata, ma disposizioni di partenza così generiche rischiano di aprire la strada a interpretazioni pericolose.
Privacy
«Come verranno raccolte le registrazioni? Come saranno gestite? In che modo sarà possibile accedere a questi dati?», chiede Prencipe. Ad oggi, alcuni principi possono essere ricavati dai pareri del Garante della privacy del 2021. È probabile che, dopo l’approvazione, si chieda un parere più aggiornato al Garante, che però non è stato audito in commissione al Senato.
Nei pareri del 2021 il Garante della privacy aveva dato il via libera al Viminale per l’uso delle bodycam chiedendo però che venissero recepite alcune indicazioni dell’autorità. «I rischi per le persone riprese possono essere anche molto elevati», si legge, come «la discriminazione», «la sostituzione d’identità», «il pregiudizio per la reputazione», o «l’ingiusta privazione di diritti e libertà».
Le videocamere possono essere usate, scriveva il Garante, «solo in presenza di concrete e reali situazioni di pericolo di turbamento dell’ordine pubblico o di fatti di reato», ma non è possibile impiegarle come sistemi di riconoscimento facciale o di identificazione univoca. I pareri vietavano inoltre la registrazione continua delle immagini, che possono essere conservate per un periodo «ragionevole» di sei mesi. Raggiunto questo termine, devono essere cancellate automaticamente.
Riformare e punire
Dal suo insediamento, il governo Meloni ha introdotto 48 nuove fattispecie di reato, senza contare quelle inserite nel ddl Sicurezza, e svariate aggravanti, per un totale di 417 anni in più di carcere, ha calcolato Luigi Manconi.
Non è solo la società civile a mettere in luce la deriva illiberale del ddl. Il Commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’ Flaherty, in una lettera al presidente del Senato La Russa, ha sottolineato come alcune disposizioni possano minare la libertà di manifestazione e di protesta pacifica, e chiesto ai membri del Senato di astenersi dall’adottare il ddl, a meno che non venga sostanzialmente modificato: «Temo», scrive O’ Flaherty, «che il disegno di legge allarghi eccessivamente la portata degli interventi delle autorità consentiti nelle assemblee pubbliche», creando «spazio per un’applicazione arbitraria e sproporzionata».
L’utilizzo delle bodycam, aggiunge Renzi, «non aiuterà quindi a migliorare l’accountability delle forze di polizia», che significa essere trasparente e rendere conto del proprio operato, e quindi assumersi la responsabilità.
Sul rischio di abusi da parte delle forze dell’ordine, per Prencipe c’è un altro articolo «pericoloso», che consente agli agenti di detenere senza licenza alcune tipologie di armi, quando non sono in servizio: «Una liberalizzazione delle armi», commenta. E conclude: «Spetterà all’associazionismo portare nelle corti queste norme e segnalare le frizioni costituzionali».
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