La legge che garantisce il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza è nata da un compromesso. Oggi secondo l’attivista Federica Di Martino e secondo i gruppi femministi va superata: basta con la settimana di riflessione e via l’obiezione di coscienza nelle strutture pubbliche
L’idea di Fratelli d’Italia e della presidente Giorgia Meloni sulla legge che disciplina l’aborto è sempre stata chiara. «Piena applicazione della Legge 194 del 1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza», scriveva FdI nel programma delle politiche del 2022. Meloni ha poi ripetuto la sua visione in più sedi: «Non intendo abolire la legge 194. Non intendo modificare la legge 194. Voglio applicare la legge 194». Ed effettivamente la parola è stata mantenuta, la legge 194 non è stata toccata, ma un motivo c’è e lo spiega bene la psicoterapeuta Federica Di Martino: «Non c’è bisogno di negare la 194 per negare il diritto all’aborto perché permette alle destre di favorire l’obiezione di coscienza e ai movimenti antiabortisti di entrare nei consultori». Di Martino questo ambiente lo conosce bene, da anni fa divulgazione sul tema dell’aborto in particolare su Instagram, dove è nota come Ivg ho abortito e sto benissimo.
Il 28 settembre è la giornata internazionale per l’aborto libero e sicuro. In Italia i dati e le esperienze di chi l’ha vissuto raccontano che questa scelta tanto libera non è, ma in realtà non lo è mai stata. «La difficoltà ad abortire in questi anni è diventata più evidente, però non è una novità», continua Di Martino. «Il problema c’era anche prima del governo Meloni, solo che non si è mai fatto nulla per affrontarlo. Siamo ancora qui a dire “giù le mani dalla 194”, ma chi lo dice sa contiene quella legge?»
I problemi della 194
La legge 194 è stata approvata nel 1978 e ha rappresentato una conquista per le donne italiane dell’epoca perché depenalizzava l’interruzione volontaria di gravidanza (ivg). «È frutto di un lungo lavoro di collettivi e reti femministe, ma anche di un compromesso che era necessario con i movimenti cattolici e con la politica di quegli anni. Oggi però risulta essere una legge molto problematica e non più attuale», dice Di Martino. E i motivi sono diversi. Il primo risiede nella visione stessa che la legge ha dell’aborto, perché «non lo vede come un diritto, ma come una concessione».
Secondo la legge, infatti, il ricorso all’ivg è possibile, come recita l’articolo 4, entro i primi 90 giorni se si verificano situazioni di «pericolo per la salute fisica o psichica» della persona, per lo «stato di salute», «le condizioni economiche, sociali o familiari o le circostanze in cui è avvenuto il concepimento o in previsione di anomalie o malformazioni del concepito». Nella legge «manca completamente la componente di autodeterminazione che mi fa dire che scelgo l’aborto perché non voglio diventare madre. Tant’è che si può praticare l’aborto per motivi psicologici, sociali ed economici, che sono poi quelli che hanno permesso l’ingresso di reti antiabortiste nei consultori», continua Di Martino.
Anche nel percorso stabilito dalla legge ci sono problemi legati ai tempi previsti. Secondo quanto stabilisce la 194, infatti, dopo il consulto medico non si può abortire direttamente, ma viene rilasciata la copia di un documento che attesta lo stato di gravidanza, a cui deve seguire un periodo di pausa di sette giorni prima di poter andare in una struttura che pratica l’ivg. È la cosiddetta “settimana di riflessione”. «L’aborto è una delle pratiche sanitarie più sicure al mondo, l’obbligo di riflessione c’è perché manca l’elemento autodeterminativo, quindi tutto diventa un confronto. La settimana di riflessione è inutile, inefficace e fa perdere tempo».
Uno degli ostacoli più noti è l’obiezione di coscienza, cioè la possibilità del personale medico di astenersi dall’effettuare determinate pratiche – in questo caso l’ivg – perché contrarie ai propri valori. «Nel 1978 l’obiezione di coscienza aveva senso perché la legge era arrivata in un momento in cui erano già in servizio medici contrari all’aborto. Ma oggi qual è il senso di questa possibilità? Se mi specializzo in ginecologia dovrei sapere che tra i miei compiti ci potrebbe essere anche quello di praticare aborti dato che la legge è in vigore da 46 anni».
Capire la condizione del diritto all’aborto in Italia non è facile perché non esistono dati istituzionali aggiornati. Secondo quanto stabilisce la legge, ogni anno entro il mese di febbraio il ministro della Salute dovrebbe presentare un resoconto sullo stato di attuazione della legge 194. Ad oggi però l’ultimo report disponibile è stato presentato a metà settembre 2023 e contiene i dati del 2021. I problemi di questo rapporto sono numerosi: oltre al ritardo nella pubblicazione, contiene dati non più attuali e organizzati in tabelle che sono divise per regione, non per struttura sanitaria.
Tutte le informazioni (che mancano)
Sapere a chi rivolgersi e conoscere tutti gli step della procedura dell’ivg non è scontato. Sul sito del ministero della Salute sono indicate unicamente le due modalità di aborto praticabili (chimico e farmacologico) e le settimane entro cui l’aborto è legale. Non sono disponibili mappe o tabelle che specificano quali sono le strutture in cui si eseguono ivg, qual è la percentuale di personale non obiettore che pratica aborti, se è disponibile l’aborto chimico e/o farmacologico.
O meglio, alcune mappe e indicazioni su internet ci sono, ma non sono fornite dal ministero. Quelle informazioni sono disponibili grazie al lavoro di persone come Federica Di Martino, campagne e progetti come Libera di abortire, Obiezione respinta e l’associazione Luca Coscioni. Secondo Di Martino, «il sistema delle informazioni dovrebbe partire già dall’assetto educativo e formativo, quindi dalle scuole primarie facendo educazione sessuo-affettiva, passando per la possibilità di avere un accesso chiaro a dati aggiornati attraverso un sito ministeriale».
Come dovrebbe essere
Secondo i gruppi che si occupano di tutelare i diritti riproduttivi la legge andrebbe ridiscussa. «È necessario eliminare la settimana di riflessione perché è inefficace e improduttiva, chiediamo dati aperti, che le regioni e tutti gli ospedali siano obbligati a fornire i dati in un tempo utile perché se no la fotografia che abbiamo non ci permette di progettare politiche concrete», aggiunge Di Martino.
Spunti da cui partire per ripensare la 194 arrivano anche dall’ultimo report di Medici del mondo, un’organizzazione medico-umanitaria internazionale impegnata nella difesa di un sistema sanitario equo e universale, pubblicato a metà settembre.
Nel rapporto “Aborto a ostacoli” si legge che, oltre agli elementi già evidenziati da Di Martino, il diritto all’aborto sarebbe garantito aumentando o rimuovendo il limite legale di età gestazionale, abolendo l’obiezione di coscienza per il personale delle strutture sanitarie che forniscono servizi legati all’ivg e somministrando il farmaco abortivo a domicilio con la telemedicina. Per far fronte alla mancanza di informazioni, Medici del mondo richiede la redazione di un sito internet del ministero provvisto di tutte le indicazioni e l’istituzione di un numero verde attivo almeno dodici ore al giorno rivolto a chi cerca informazioni sull’aborto, come avviene già in altri paesi europei.
Oltre agli interventi specifici, sarebbe necessario un ripensamento generale di tutti i luoghi della salute, che dovrebbero mettere al centro la dignità delle donne ed essere ripensati in chiave transfemminista.
«Chiediamo un’attenzione per le fasce più vulnerabili, come le persone migranti», conclude Di Martino. «Per loro la situazione è ancora più difficile perché le informazioni online non sono mai tradotte e nei presidi sanitari non ci sono mediatori o mediatrici. E l’attenzione deve andare anche alle categorie più marginalizzate, cioè le persone trans* e non binarie, che nella maggior parte dei casi hanno paura di trovare persone transfobiche o non sanno proprio a chi rivolgersi».
© Riproduzione riservata