Domani è a bordo della Life Support, la nave di Emergency, per documentare cosa succede durante le missioni nel Mediterraneo. Abbiamo parlato con il comandante per capire quali sono le procedure da rispettare durante un salvataggio
«Ricordo bene le grida di una bambina. Avrà avuto due anni. Era sulla barca con la madre insieme a una cinquantina di altre persone. Era notte e il suo pianto squarciava il buio», racconta Domenico Pugliese, 53 anni, comandante della Life Support, la nave di Emergency per ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, area in cui con la fine della missione Mare Nostrum sono rimaste solo le navi civili a monitorare il mare con l’obiettivo di assistere i naufraghi in difficoltà.
«Dopo qualche ora a bordo della Life support la bambina si è tranquillizzata. Ma ogni volta che ci ripenso mi tornano in mente i suoi occhi enormi, spalancati. Così rifletto sulle esperienze terribili che deve aver vissuto, in soli due anni», spiega ancora Pugliese che ricorda come fosse oggi i soccorritori prendere la bambina dalle braccia della madre, per portala al sicuro. E il suo pianto profondo, potente, probabilmente motivato dall’incapacità di comprendere che cosa le stava succedendo attorno.
«Ho passato una vita in mare, sono più di 20 anni», racconta Pugliese, che a casa, a Napoli, ha tre figli, alla guida della Life support fin dalla prima delle 25 missioni, nel dicembre 2022. Prima, lavorava per le navi commerciali, quando ha ricevuto la proposta dall’ong italiana si è preso del tempo per riflettere: «Perché era un’esperienza profondamente diversa da quanto avevo fatto fino ad allora. Ho accettato e infatti mi ha cambiato. Oggi comprendo la realtà di chi sceglie di partire, la disperazione ma anche il coraggio. La necessità di recuperare la dignità personale».
Pugliese spiega che solitamente arriva una telefonata per segnalare le imbarcazioni in difficoltà nel mediterraneo. Anche se quando la Life Support è in navigazione lo staff Emergency è organizzato in turni di guardia continui, notte e giorno, per monitorare il Mediterraneo. «La maggior parte delle volte la segnalazione proviene da enti riconosciuti, come il progetto Alarm Phone. Ma può succedere anche che ci arrivino chiamate anonime. In quei casi verifichiamo sempre l’informazione prima di muoverci. E prima di allertare le autorità italiane, maltesi libiche e tunisine. Non ci risponde mai nessuno, solo il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo italiano (Mrcc ndr)».
Una volta note le coordinate, la Life Support si dirige verso l’imbarcazione in distress, in difficoltà. «Dall’arrivo fino a quando il soccorso non si conclude comunichiamo costantemente con le autorità italiane. Che dopo qualche ora ci informano sul porto verso cui dobbiamo dirigerci». Il comandante della nave di Emergency spiega di non sapere le motivazioni sui ci si basa l’assegnazione del luogo di sbarco.
Così come, da quando il decreto Piantedosi sul soccorso in mare è legge, non sono chiare le ragioni che permettono di effettuare altri soccorsi dopo il primo: «A volte siamo stati autorizzati a soccorrere più imbarcazioni in difficoltà, durante una missione siamo arrivati fino a cinque, altre volte no. Lo stesso vale per lo sbarco, le autorità ci indicano dove andare e noi seguiamo le direttive», chiarisce, sottolineando che i porti italiani in cui la Life Support ha attraccato sono tanti e diversi: da Siracusa, Augusta, Napoli, per dirne alcuni, a Livorno o Ravenna a quattro giorni di navigazione.
«Il danno in questi casi è a noi per i costi della missione che lievitano. Ma soprattutto per i naufraghi. Già provati da enormi sofferenze e difficoltà durante la loro fuga», conclude il comandante pochi secondi prima che un sorriso allarghi il suo volto: «Sono io ad annunciare il porto di sbarco. E’ un evento. Un evento piacevole anche se il porto assegnato è lontano. Perché così i naufraghi sanno che arriveranno in Italia, in un luogo sicuro, e qualcuno potrà finalmente aiutarli».
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