Domani è a bordo della nave Life Support di Emergency per documentare cosa succede durante le missioni nel Mediterraneo. Il racconto del salvataggio attraverso le esperienze delle prime persone con cui chi sogna di raggiungere l’Europa entra in contatto, dopo ore in mare: «Quando i migranti capiscono che sono al sicuro, il terrore lascia spazio alla speranza. Ma noi possiamo aiutarli fino allo sbarco, poi non sappiamo nulla sulla loro sorte»
«Ci sono persone con le idee molto chiare. Sanno dove vorrebbero andare e per raggiungere chi. Altre scappano e basta. Perché qualsiasi cosa troveranno sarà migliore della violenza che si sono lasciati alle spalle», racconta Chiara Picciocchi, mediatrice culturale a bordo della Life Support, la nave di Emergency in partenza per la 25esima missione di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, ferma da due giorni al porto di Siracusa in attesa che il meteo sia favorevole alla navigazione e che lo staff sia formato sulle procedure necessarie al soccorso.
«Appena i naufraghi vengono salvati si vede, nei loro occhi, la paura. Dopo qualche ora a bordo della nave, quando iniziano ad ambientarsi, capiscono che sono al sicuro e arriva la speranza. Quando il Capitano annuncia il porto di sbarco è un momento di grande gioia per tutti», spiega ancora la mediatrice, 31 anni, che parla inglese, francese e arabo dopo essersi laureata all’Università Orientale di Napoli.
Con il suo collega Yassin Ramadhan Afa, 34 anni, d’origine eritrea, capace di parlare l’arabo, l’inglese, l’italiano e il tigrino, sono le prime persone con cui chi sogna di raggiungere l’Europa entra in contatto durante il salvataggio in mare a opera del team della Life Support.
Il lavoro del mediatore culturale
Quello dei mediatori culturali è un ruolo cruciale per l’accoglienza dei migranti. Soprattutto nei momenti di primo soccorso. Come racconta Picciocchi, «uno di noi resta a bordo della Life Support. L’altro salirà a bordo del rhib, il gommone a scafo rigido con cui la squadra di soccorritori di Emergency si avvicina all’imbarcazione in difficoltà, per tranquillizzare, subito, le persone in mare. Spieghiamo loro che siamo un’ong italiana, che siamo lì per aiutare, per portarli in un posto sicuro. Ma che non devono agitarsi».
Poche parole, semplici ma fondamentali per evitare che momenti concitati, come quello del salvataggio, o per l’entusiasmo o per la paura - i naufraghi non sanno se la nave che vedono avvicinarsi è lì per aiutarli oppure per riportali indietro - si trasformino in tragedie. Come succede quando l’imbarcazione di fortuna su cui, la maggior parte delle volte, è stipato un numero di persone maggiore della capienza, si rovesci.
«Quando i naufraghi arrivano a bordo della nave ci parliamo per capire le loro necessità. Il nostro obiettivo è di far sentire tutti inclusi allo stesso modo, di rendere il viaggio il più confortevole possibile. Anche se la convivenza di tante persone diverse nello stesso spazio stretto non è facile. Così facciamo del nostro meglio per prevenire ogni occasione di conflitto, ad esempio prestando attenzione alle persone vulnerabili a bordo, come donne, minori, chi ha bisogno di cure mediche», spiega Afa.
L’importanza di conoscere la lingua
Il mediatore racconta di aver provato sulla sua pelle che cosa significa vivere in un paese di cui non si conosce la lingua: «Per me vedere gli italiani parlare era come guardare un film, osservavo da fuori senza interagire», rivela oggi in un italiano quasi perfetto, per sottolineare quanto è importante, e solitamente considerato scontato, poter comunicare con le persone attorno soprattutto in una situazione di pericolo o stress.
«Una volta saliti a bordo della nave, quando si sentono al sicuro, i naufraghi sono molto curiosi. Sanno di aver superato la parte più rischiosa del viaggio e così iniziano a farci molte domande. Su dove andremo, cosa faranno, come raggiungere i familiari, quale sarà il loro futuro in Europa. Noi non possiamo fare promesse. Non possiamo aiutarli per quello che avverrà una volta toccata terra in Italia. Diamo solo le informazioni necessarie alla richiesta della protezione internazionale», chiarisce Picciocchi.
Che delle sorti di chi ha accompagnato nell’ultima parte del viaggio verso l’Europa non saprà più nulla dopo l’arrivo al porto sicuro: «Perché con lo sbarco la missione può dirsi conclusa».
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