In via Lucio Sestio 10, a Roma, nel quartiere Quadraro c’è un cancello aperto alla città.

All’interno ci sono un parco, un orto, giochi di legno, una sartoria, una casa e un centro anti violenza (Cav).

È la casa delle donne Lucha y Siesta. «Non è solo un Cav, non è solo una casa rifugio, una casa di semi autonomia, non è solo un luogo di cultura, di prevenzione e di educazione. È l’insieme di tutti questi elementi e nel tempo è diventato anche molto di più», spiega Mara Bevilacqua, attivista dell’associazione.

Da quando la regione Lazio lo scorso 5 agosto si è aggiudicata l’immobile all’asta e ha avviato il processo verso il suo riconoscimento come bene comune, il cancello viene lasciato aperto. La casa delle donne negli anni è diventata un’istituzione per l’intera città. Il problema ha un peso profondo e attuale: l’ultimo report della Direzione centrale anticrimine della polizia racconta che ogni giorno in Italia 89 donne sono vittime di reati di genere.

Commessi soprattutto da mariti e compagni, nel 34 per cento dei casi. Il progetto romano è nato nel 2008 quando centinaia di donne occuparono uno stabile dell’Atac, la partecipata del comune di Roma che gestisce il trasporto pubblico, completamente abbandonato, poi recuperato e valorizzato.

La rete si è ampliata molto, trovando negli ultimi anni anche appoggio internazionale, di fronte a una minaccia di sgombero sempre più concreta e imminente. In 13 anni Lucha y Siesta ha sostenuto 1.200 donne, «rispondendo a un numero significativo di richieste di accoglienza a cui il comune di Roma non è in grado di far fronte attraverso le strutture che finanzia con i fondi statali anti violenza. Rappresenta infatti la risposta alle situazioni di emergenza a cui spesso fa ricorso la rete comunale dei centri», si legge nel report del 2019 dell’organizzazione ActionAid.

La casa rifugio di via Lucio Sestio può ospitare fino a 14 donne, mentre la capacità delle quattro case rifugio del comune è di 26 posti. Lucha y Siesta si trova fuori dal circuito istituzionale, vivendo solo dell’attivismo delle operatrici, ma rimane un punto di riferimento per le istituzioni. Nonostante ciò, è stata per anni sotto sfratto, rischiando di chiudere.

Il rischio di sgombero

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L’amministrazione dell’ex sindaca Virginia Raggi nel gennaio 2020 aveva intensificato gli sforzi per sgomberare l’immobile e ricollocare le 14 donne ospitate. «A parole ci dicevano che facevamo un lavoro prezioso e poi agivano diversamente», denunciano le attiviste. «Si parla di violenza istituzionale, quando si usa un potere sapendo di essere in una posizione di forza. Ecco, noi questa violenza l’abbiamo vissuta», dice Simona Ammerata di Lucha y Siesta. È accaduto all’inizio della pandemia, quando le richieste sono aumentate: nel 2020, secondo i dati dell’Istat, le chiamate al numero nazionale anti violenza 1522 sono aumentate del 79,5 per cento rispetto al 2019. 

«Noi però abbiamo portato avanti il progetto, trovando il modo di non lasciare sole le 14 donne che sono uscite dalla casa e ricominciando pian piano ad accogliere», dice Ammerata, che racconta l’inizio di un nuovo percorso politico che ha portato ad accrescere la rete e a dialogare con la regione. 

«La decisione della regione Lazio è importante», continua, «perché rappresenta un’inversione di tendenza: non è vero che una città per essere efficiente debba essere privatizzata. Si può investire sul benessere sociale e sui diritti di chi ci vive. Un’idea diversa di città». 

I centri antiviolenza

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I Cav sono luoghi in cui si offre consulenza, le case rifugio invece garantiscono un alloggio sicuro alle donne che hanno iniziato un percorso di fuoriuscita dalla violenza. Nel 2021 Lucha y Siesta ha vinto un bando per gestire un Cav comunale nel quartiere di Montesacro. La domanda è alta e i servizi non sono sufficienti. «Il dato più preoccupante è la mancanza di posti rifugio a Roma», denuncia Simona Ammerata.

Nel 2019 infatti nel comune di Roma è stato accolto solo l’11,3 per cento delle richieste di ospitalità nelle case rifugio. Risulta quindi inevaso, come evidenzia il rapporto del 2020 dell’amministrazione, l’88,7 per cento delle richieste, di cui il 65,5 per cento per «mancanza di posti letto». «E nei Cav, se oggi arriva un'emergenza, noi non possiamo dare un appuntamento prima di un mese», continua, sottolineando l’importanza di dare una risposta immediata.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Istat, pubblicato nel 2019, al 31 dicembre 2017 risultavano «attivi 281 centri anti violenza, pari a 0,05 centri per 10mila abitanti» e 264 case rifugio. Sono numeri che violano la Convenzione di Istanbul, strumento del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne, che richiede la presenza sul territorio di Cav e case rifugio «in numero sufficiente», cioè un Cav ogni 10mila abitanti e una casa rifugio ogni 50mila.

I finanziamenti

Le associazioni di donne e i movimenti femministi evidenziano poi l’inadeguatezza del sistema di finanziamento. Il meccanismo di ripartizione dei fondi è lento, burocratizzato, insufficiente e permette a «entità che non operano nel rispetto degli standard definiti nell’accordo stato-regioni del 2014» di ricevere fondi statali, escludendo invece chi li rispetta.

La Commissione parlamentare d’inchiesta sui femminicidi evidenzia, nella relazione sulla governance dei servizi e dei centri anti violenza di luglio 2020, l’assenza di controlli sui soggetti che percepiscono i fondi statali, la cui idoneità viene «accertata tramite auto dichiarazione». Occorre dunque rivedere l’Intesa del 2014, scrive la Commissione, perché lacunosa: è necessario definire in modo chiaro i soggetti che possono partecipare ai bandi.

Questo meccanismo è stato criticato dal Grevio, organismo indipendente che monitora l’applicazione della convenzione, anche per la «mancanza di trasparenza», «la scarsità di finanziamenti a disposizione» e per i ritardi nell’erogazione dei fondi. Come evidenzia il rapporto del 2020 di Actionaid, infatti, non sono ancora stati distribuiti tutti i fondi del biennio 2015-2016 e le risorse del 2018 sono state liquidate per il 39 per cento, circa 7,6 milioni di euro a fronte dei 19,6 stanziati.

Simona Ammerata denuncia che con l’aumento dei fondi destinati al contrasto alla violenza di genere «molte cooperative, che si occupano di altro, senza alcuna formazione, vincono i bandi. Ciò ha conseguenze molto gravi». Una formazione inadeguata riproduce infatti il sistema culturale che, non riconoscendo la violenza, la naturalizza e la giustifica.

«La tutela viene garantita solo quando c’è la competenza e la formazione nella lettura della violenza maschile contro le donne», spiega Paola Di Nicola Travaglini, giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma e consulente giuridica della Commissione parlamentare sul femminicidio. Le associazioni di donne chiedono da tempo un superamento di questo sistema e la ripartizione diretta dei finanziamenti alle strutture, con convenzioni pluriennali che permettano stabilità e progettualità.

Magistrati poco formati

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Le istituzioni, che dovrebbero offrire tutela, spesso vittimizzano ulteriormente. Il 27 maggio scorso infatti l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo perché «il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello» di Firenze veicolano «i pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare una protezione effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente».

La Corte ha sottolineato l’importanza «che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni, di minimizzare la violenza di genere e di esporre le donne a una vittimizzazione secondaria utilizzando affermazioni colpevolizzanti e moralizzatrici atte a scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia».

Di Nicola Travaglini commenta la sentenza ricordando che «anche i magistrati, come tutti, sono figli e figlie di questa cultura giustificazionista e sessista e così rischiano di non conoscere e riconoscere la violenza».

Secondo la gip può essere decisivo partire dalle aule di giustizia perché se «la parola pubblica disvela il pregiudizio e non lo asseconda, fa un’operazione non solo giuridica, ma anche culturale, in nome dello stato», assicurando l’applicazione della Convenzione di Istanbul secondo cui il diritto delle donne a vivere libere dalla violenza è un diritto umano inalienabile. «E oggi questo diritto umano inalienabile troppo spesso non è riconosciuto», sottolinea.

Il sistema giuridico è efficace e avanzato ma risulta inadeguata la sua applicazione, soprattutto per la mancanza di formazione. Sono tre le soluzioni per innescare un meccanismo più rapido nel contrasto alla violenza di genere, dice la gip: rendere la formazione obbligatoria per legge durante l’orario di lavoro, «perché il fenomeno va conosciuto non solo sotto il profilo giuridico ma soprattutto sotto il profilo culturale».

Lavorare nelle scuole, a partire dagli asili nido, in modo trasversale, dallo «sradicamento degli stereotipi di genere alla rappresentazione della ricca storia delle donne, della rimozione di modelli predefiniti, in tutti i contesti». E infine, conclude Di Nicola Travaglini, il ruolo della stampa e dei mass media che troppo spesso affidano la rappresentazione della violenza a chi non ha competenza e la racconta erroneamente come raptus di gelosia.

È un processo difficile, perché tutto ciò richiede la ricostruzione di un assetto, ma necessario.

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