A un anno dal femminicidio della 22enne di Vigonovo gli studenti fanno di nuovo sentire la loro voce per contrastare la violenza di genere e decostruire il patriarcato. Un minuto di rumore, altro che di silenzio
Un minuto di rumore, altro che di silenzio. Anche quest’anno gli studenti delle scuole italiane preferiscono far sentire la loro voce invece che tacere. Per ricordare il femminicidio di Giulia Cecchettin, uccisa l’11 novembre del 2023 perché «in quel momento volevo tornare insieme a lei. Lei non voleva e mi faceva arrabbiarle che non volesse. Però io in quel momento incolpavo lei di non riuscire a portare avanti la mia vita. Volevo che il nostro destino fosse lo stesso per entrambi. Se soffro io, devi soffrire anche tu, cose di questo tipo», ha detto Filippo Turetta nell’aula del tribunale di Venezia lo scorso 25 ottobre.
A dimostrazione che, ancora una volta, i femminicidi sono «omicidi di Stato», che non tutela e protegge le donne. Non sono eccezioni, azioni di un mostro perché «un mostro è una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro», scriveva Elena Cecchettin, la sorella della 22enne uccisa nel parcheggio del Comune di Fossò, nella lettera pubblicata dal Corriere della Sera pochi giorni dopo il femminicidio.
Così, non basta non dimenticare Giulia Cecchettin ma serve anche «rivendicare l’importanza dell’educazione sessuale, affettiva e al consenso nelle nostre scuole. Perché solo ripartendo dall’educazione e dalla prevenzione possiamo costruire dei rapporti più sani, fondati sul rispetto reciproco», chiarisce Paolo Notarnicola, coordinatore nazionale del sindacato studentesco Rete degli studenti medi, a proposito del minuto di rumore organizzato negli istituti scolastici del Paese lunedì 11 novembre.
COSA SERVE DAVVERO
«Un anno fa eravamo nelle scuole e nelle piazze per gridare che Giulia Cecchettin doveva essere l’ultima. Ma quest’anno sono già 91 i femminicidi avvenuti in Italia», aggiunge Camilla Velotta, per spiegare le motivazioni che hanno portato la Rete degli studenti medi anche a lanciare una petizione rivolta a tutti i cittadini e un appello alle istituzioni affinché vengano creati nelle scuole spazi sicuri in cui tutte le soggettività possano sentirsi tutelate, per ogni orientamento sessuale e di identità di genere.
«Ripartire da un’educazione sana e consapevole è l’unica possibilità che abbiamo per formare delle generazioni più sensibili e attente al tema e per sradicare la cultura della violenza che permea la nostra società», si legge nel documento attraverso cui gli studenti delle scuole superiori chiedono al ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara: «Programmi di educazione sessuale, affettiva e al consenso in ogni istituto, che ci educhino a costruire rapporti umani sani e rispettosi dell’autodeterminazione dell’altro, basati su un approccio orizzontale e transfemminista».
Come spiegano gli studenti, infatti, le politiche messe in atto dal governo Meloni fino a oggi non sono affatto sufficienti. Con il progetto “Educare alle relazioni” presentato da Valditara a novembre 2023, sull’onda dell’alta attenzione mediatica al tema, dopo il femminicidio di Cecchettin e gli stupri di Palermo e Caivano, «è stato fatto un tentativo vano di occuparsi di violenza di genere, impostando la riflessione in maniera criminalizzante, facendo leva sulle conseguenze penali a cui si ricorre se si commettono violenze. Invece che educare a non commetterle. Serve invertire la rotta ripartendo dagli spazi che attraversiamo ogni giorno, che ci formano e ci consegnano la possibilità di leggere il mondo sotto altre lenti».
UN PROGRAMMA INUTILE
A credere che per contrastare la violenza di genere in maniera strutturale serva a poco un approccio basato sulla responsabilità individuale e che mira a punire invece che a creare consapevolezza, c’è anche Chiara Cerruti, del movimento femminista e transfemminista Non una di meno. Che da anni si impegna per contrastare la violenza di genere e il patriarcato anche attraverso la formazione nelle scuole. E che per il prossimo 23 novembre, in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne (25 novembre) ha indetto due manifestazioni nazionali, a Roma e Palermo.
«Se si vuole combattere la violenza di genere con la prevenzione non è questo il modo di farlo», dice Cerruti, incisiva, riferendosi al progetto “Educare alle relazioni”: «Faccio l’insegnante da tanti anni e mi rendo conto che la scuola tende a separare le emozioni e il benessere della persona dagli aspetti cognitivi e d’apprendimento. A mettere in secondo piano i sentimenti, la conoscenza dei corpi, le capacità relazionali, elementi che sono al centro dello sviluppo».
Per la professoressa e attivista di Non una di meno, infatti, il piano di Valditara, «non solo crea un sistema basato sulla paura delle conseguenze e non sulla consapevolezza del senso di giustizia e uguaglianza». Ma anche dimentica di prendere in considerazione il fatto che sono i primi anni di vita della persona a essere fondamentali per la costruzione della sua identità, visto che parla di una formazione su base volontaria a partire dal terzo anno delle scuole superiori.
Un progetto di cui oggi non si sente più neanche parlare. Come aggiunge, infatti, Marta Rohani, psicoterapeuta e delegata scuola di Arcigay, associazione Lgbtqia+ attiva da più di 25 anni, che conta 43 gruppi impegnati nella formazione nelle scuole su tutto il territorio nazionale: «Non ho dati certi per quel che riguarda l’avvio di "Educare alle relazioni”. Guardando sui vari siti delle scuole non trovo nulla. Ho cercato anche tra i bandi, visto che tra le conseguenze del piano di Valditara ci sarebbe dovuto essere anche il coinvolgimento dei Centri anti violenza, ma niente. Secondo me il progetto è caduto nel vuoto, sembra solo propaganda volta a disincentivare la responsabilità sociale», chiarisce Rohani riferendosi anche al fatto che le linee guida sull’educazione civica emanate dal ministro, tranne che per la riga in cui si parla di «rafforzare e promuovere la cultura del rispetto verso la donna», non fanno accenni alla necessità di introdurre l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole.
«E promuovono un modello di istruzione basato sulla competitività, sulla cultura d’impresa, che mette al centro l’individuo, non la società. Un modello che noi rifiutiamo», spiega Smilla, studentessa di Osa, l’organizzazione politica di Opposizione studentesca d’alternativa. Che per il prossimo 15 novembre, il “No Meloni day2” ha stilato un programma di 10 punti da portare all'attenzione del ministro dell'Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara. In cui si sottolinea anche la necessità che un progetto strutturale, curricolare e portato avanti da esperti psicologi, psicoterapeuti, sessuologi e ginecologi, di educazione sessuale e affettiva prenda forma nelle scuole del Paese: «Il nostro ragionamento va anche oltre l’11 novembre. La drammatica vicenda di Cecchettin ha reso il tema dell’educazione sessuale e affettiva un tema di massa. Ma la nostra è una battaglia che va avanti da anni perché parliamo dei nostri bisogni».
DECOSTRUIRE GLI STEREOTIPI
Necessità che anche Lucrezia Iurlaro, presidente dell’associazione Tocca a Noi, la rete che si batte per un accesso libero e universale ai prodotti igienico-sanitari, ha toccato con mano durante gli incontri di formazione organizzati nelle scuole e nei luoghi dello sport nell’ultimo anno: «Quando parli di crescita, adolescenza, cambiamento dei corpi, inevitabilmente discuti anche di educazione all’affettività e sessualità. Avendo a che fare con studenti, anche delle scuole medie, ci siano resi conto di quanto gli stereotipi di genere si radichino presto nelle menti delle persone. Ma anche di quanto sia importante un dialogo aperto e consapevole per decostruirli. L’interesse nelle scuole è alto, gli allievi ci riempiono di domande. Infatti abbiamo intenzione di riflettere su come riuscire a promuovere un’educazione sessuale e affettiva strutturata all’interno degli istituti. Anche perché, se non partiamo dalla base, dalla conoscenza dei nostri corpi, come possiamo pretendere che esista il rispetto per noi stessi e per gli altri?».
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