Domenica alle 20 la partita per il secondo titolo dello Slam, Flushing Meadows dopo l’Australian Open: l’avversario è l’americano Taylor Fritz. Senza la controprogrammazione della Nazionale di calcio vissuta venerdì sera, gli ascolti su Supertennis e su Sky potrebbero toccare picchi storici
I ruoli sono invertiti. Quando domenica sera alle 20, Jannik Sinner e Taylor Fritz entreranno sull’Arthur Ashe per giocare la finale dello Us Open non sarà l’americano a essere bandiera del sogno che da quell’area geografica prende il nome, ma l’italiano della Val Pusteria. Se dovesse aggiudicarsi il titolo, per lui sarebbe il secondo Slam dopo l’Australian Open e il sesto torneo stagionale: potrebbe allora inserirsi bene nella nobile lista di coloro i quali, nati in Italia, hanno trovato gloria sotto il cielo a stelle e strisce, da Nino Benvenuti a Flavia Pennetta, da Marco Belinelli a Primo Carnera.
Ma il punto è che il cammino che ha portato Sinner fino alla finale di Flushing Meadows è un perfetto esempio di realizzazione del sogno americano. Quello di Fritz è invece il frutto di una vita più benestante. È cresciuto a Santa Fè in un ranch in cui i vicini di casa si chiamavano Arnold Schwarzenegger e Bill Murray.
Una casa da immaginare pensando al film Kill Bill di Tarantino, con la distesa di cactus in cui Uma Thurman manda all’altro mondo David Carradine con la tecnica dei cinque colpi al cuore. Un ranch frutto dei proventi derivati dalla vendita dei magazzini May, per lunghi anni la catena più importante d’America appartenuta alla famiglia materna e ceduta al gruppo che oggi detiene anche Macy’s e Bloomingdale.
La pratica tennistica per Taylor è iniziata sul campo di casa, con i genitori a loro volta tennisti (mamma Kathy è stata numero 10 al mondo nel ’77), senza trasferimenti da affrontare e col maggiordomo che depositava una brocca di limonata ghiacciata a bordo campo.
L’unicità di NY
L’inseguimento di Sinner al sogno americano non ha niente del proletariato, non è il Tom Joad di Steinbeck che dall’Oklahoma intraprese il viaggio verso la California per trovare di che vivere. Da Sesto Pusteria a Bordighera prima, e a Montecarlo poi, è stato un viaggio certamente più agevole.
Ma resta la certezza che un successo di Jannik oggi avrebbe un sapore unico, come si può provare solo quando si parte dal basso e si arriva molto in alto. Sarà anche vero, come scriveva Isabel Allende anni fa, che vittoria e sconfitta sono invenzioni dei gringos: ma forse proprio per questo vincere in America è un’esperienza che apre le porte dell’empireo sportivo.
Ha raccontato Flavia Pennetta: «A New York è fondamentale non cambiare la tua routine prima della finale. Gestire i tempi. Estraniarti da un luogo che per sua natura incombe su di te, rischia di schiacciarti. Non pensare al caldo e all’umidità che ti fanno vomitare (a lei successe contro la cinese Peng Shuai, la donna caduta nel dimenticatoio dopo il caso della sua scomparsa, ndr) o al brusio continuo che arriva dagli spalti».
L’incognita WADA
In quanto a concentrazione, anche dove sembra impossibile trovarne, Sinner non ha pari al mondo. Jannik dovrà lasciare nell’armadietto degli spogliatoi l’inevitabile incertezza sul possibile ricorso della Wada contro l’assoluzione per il caso-Clostebol. Nelle prossime ore (finalmente) si saprà cosa hanno deciso i signori dell’organismo antidoping mondiale. Di certo c’è già chi di Sinner ha fatto un esempio negativissimo. Il Telegraph ha pubblicato un articolo tra il serio e il faceto prima della semifinale, chiedendo a Draper di battere Jannik «per salvare il tennis: il Santo contro il Peccatore».
E pure dopo il successo ha più o meno ironizzato sottolineando che mentre il prode Jack dava di stomaco in campo per la fatica, l’italiano non faceva una piega. Anzi l’unica parte del suo corpo a piegarsi era stato il polso sinistro in una caduta all’indietro che ha fatto tremare gli aficionados.
Sarà interessante capire se la Wada deciderà di soprassedere o se, desiderosa di sottolineare la sua natura di ente supremo, deciderà di procedere.
Un ragazzo, uno sport
C’è un altro peso che Sinner dovrà gestire, esser diventato suo malgrado il simbolo dell’attacco nel nostro Paese del sistema-tennis al sistema-calcio. L’altra sera Francia-Italia (giocata in contemporanea con Sinner-Draper) ha rintuzzato l’attacco raccogliendo una platea di cinque milioni e mezzo di spettatori mentre Sinner (su Sky, Sky Go e in chiaro su Supertennis) si è fermato a un milione e mezzo complessivo.
Ma stasera la finale di New York non avrà pesante controprogrammazione sportiva: l’occasione d’oro che il tennis aspettava per proporsi definitivamente come alternativa reale al problematico calcio in campo e fuori. A questa impresa Sinner prenderà parte stasera e non nel round bolognese di Coppa Davis la settimana prossima. Come era ampiamente prevedibile né lui né Musetti (vincitore del bronzo a Parigi poche settimane fa ma anche desideroso di non vestire sempre i panni del tappabuchi quando Jannik “marca visita” a eventi della Nazionale) saranno a Bologna. Al loro posto Volandri ha convocato Matteo Berrettini e Flavio Cobolli, quest’ultimo all’esordio. Contro Brasile, Olanda e Belgio. Jannik dovrebbe essere in tribuna a sostenere i compagni. Il sistema-tennis di lui non può proprio fare a meno.
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