«Il calcio generalmente non diverte, non fa spettacolo e ha imboccato una china pericolosissima. E a chi, se non alla Juve e all’Inter in questo momento può rivolgersi l’intero campionato per invocare un loro spettacolare intervento che valga a catturare lo spettatore che scappa?».

Sembra oggi. Invece era il 1980, più di quarant’anni fa. Si parlava di tifosi che non tifavano più, di stadi che si svuotavano, di tv private, di aste perse dalla Rai per il mundialito, di rifugi anti-atomici («La paura ha fatto nascere un’industria» scriveva il Corriere della Sera), di femminicidi, di disastri. E di Inter-Juventus, «derby d’Italia».

Con la sua vocazione al linguaggio e all’invenzione, a chiamarlo così era stato Gianni Brera. Erano gli anni Sessanta, il mondo si stava allargando, e quel suono anglosassone sembrava accentuare la rivalità tra le due squadre più titolate d’Italia, le più tifate, le più seguite, le due che non erano mai uscite dell’eden della Serie A.

Con la sua inguaribile ironia, l’ex patron nerazzurro Massimo Moratti ha fatto diventare la partita un aforisma: «Con Juve e Milan sono rivalità diverse. Quella con la Juve è tradizione, si riaccende a ogni battuta». Tutti figli del campanilismo, in Italia. Ma vuoi mettere avere un bel derby di un paese intero. Sembrava un buon modo per uscire dalla provincia.

Il suo senso oggi

Cosa rappresenti Inter-Juventus oggi, in questo 2024, è oggetto di analisi complessa. La geografia del pallone si è espansa più all’estero che dentro i confini. E lo scudetto è diventato un biglietto da visita per la competizione che tutti ritengono più affascinante e importante: la SuperChampions. Intanto, però, Inter-Juventus di domani sera può dare un indirizzo a questo campionato. E farci capire se il calcio by Thiago Motta è così rivoluzionario come dicono o se invece il pragmatismo di Simone Inzaghi è ancora sufficiente. Ogni partita ha una storia diversa proprio come ogni generazione ha avuto la sua Inter-Juventus, la storia di una rivalità.

Più facile dire che cosa non è questa partita. Non è più un confronto tra le famiglie rappresentanti del capitalismo italiano, i Moratti vs gli Agnelli. Non è più nemmeno l’espressione di due volontà calcistiche abbinate al luogo. E nel frattempo la Juve si è fatta pure un giro nel purgatorio della B. C’è stata Calciopoli, l’Inter è finita sotto il controllo di proprietà straniere mentre il calcio stava già cambiando e così anche i suoi manager, i suoi amministratori.

Non per tutti, poi, Milano è un place to be, visto che i prezzi medi delle abitazioni fra il 2015 e il 2021 sono cresciuti del 41% (gli affitti medi del 22%), mentre la retribuzione media di operai e impiegati è cresciuta appena del 3 e del 7%. Torino era considerata città dell’auto, mentre oggi Mirafiori e quel modello di grande fabbrica da 40mila operai non esiste più. Cambiano i luoghi, i tempi, l’economia, le aspettative, e dunque cambia anche il pallone.

Genesi di un dualismo

È diversa anche la rivalità tra queste due squadre. Nata, pare, un giorno preciso: il 16 aprile 1961. Si giocava al Comunale di Torino. La partita venne assegnata a tavolino e vinta dall’Inter per 2-0 per un’invasione di campo. La Juventus fece ricorso e lo vinse. Si rigiocò quando ormai i bianconeri avevano già vinto il campionato.

Per protesta, il presidente dell’Inter Angelo Moratti ordinò a Helenio Herrera di mandare in campo la squadra della Primavera, accusando di avere subìto le pressioni di Umberto Agnelli. Finì 9-1 per la Juve: 6 li segnò Sivori, 1 il giovane Mazzola. Un calcio diverso. Oggi in Italia si è capito che l’intensità contemporanea è più bassa che da altre parti in Europa: bella scoperta. Ce lo ha detto Arne Slot, l’allenatore del Liverpool parlando di Federico Chiesa, ex Juve, uno dei silurati di Motta a inizio stagione. «Chiesa è arrivato in Premier League, un torneo in cui l’intensità potrebbe essere più alta rispetto all’Italia».

Un calcio lento, sterile, fragile. Inter e Juventus, però, almeno un po’ reggono. E questo rende il confronto atteso e pieno di incognite. A non reggere più è lo status di derby. Mario Sconcerti ne parlò qualche anno fa: «Il derby d’Italia oggi non esiste più». Ne faceva una questione numerica, di chi aveva vinto di più. Perché a un certo punto il Milan aveva cominciato a portare il suo credo tattico in giro per il mondo per vincere le coppe e mostrando a tutti un calcio nuovo, diverso, che avrebbe fatto epoca. Ne parlò nel 2009 Adriano Galliani, l’ex amministratore delegato rossonero. Quell’espressione, derby d’Italia, aveva bisogno di essere ridefinita, rimediata e riutilizzata: «Loro sono quelli che hanno vinto di più in Italia, noi nel mondo, dunque sulla base di un semplice calcolo sembra che il derby d’Italia sia Juventus-Milan».

Eppure più i numeri s’ingigantiscono e più si fa fatica a tenerli a mente, se ne perde il conto. E per le generazioni di oggi – tifosi e perché no anche calciatori che vengono da tutto il mondo – Inter-Juventus non è chi ha vinto più scudetti, ma è solo un’altra (bella) partita di campionato. Il derby non c’entra.

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I protagonisti di oggi

D’altra parte, l’ex numero uno bianconero Andrea Agnelli è sempre stato convinto del contrario: «Juventus-Inter è il derby d'Italia, lo è stato per gli ultimi sessant’anni e lo sarà per sempre». L’attenzione, però, si è spostata sui duelli tra protagonisti, sui dualismi interni. Lo sarà anche questa volta. Da una parte Thiago Motta e il suo carattere fermo, tutto d’un pezzo. Dall’altra Simone Inzaghi, una gavetta nelle giovanili, un approccio paterno ai suoi giocatori.

Due sguardi, due metodi. Che si innestano su una partita che conta. Thiago Motta è sempre lo stesso che già al Psg chiamavano «le patron», il capo, l’uomo che persino sua eccentricità Ibra ha sempre rispettato. La prima stagione di Thiago alla Juventus è cominciata all’insegna delle decisioni forti. Da capo, appunto. Otto giocatori tagliati nel giro di un’estate: nemmeno in un talent qualsiasi. Tutti fedelissimi di Max Allegri, tutti quelli che non rientravano nei suoi piani.

Thiago è così: prendere o lasciare. Ma alla Juventus serviva entrare in una nuova epoca. Tutto il contrario del suo avversario, Simone Inzaghi. In un eccesso di bontà qualcuno lo chiama ancora Inzaghino per differenziarlo da suo fratello Filippo, come quando giocavano. Nel frattempo Simone ha vinto coppe e scudetto e giocato una finale di Champions beffarda. Accogliente, comprensivo, capace di andare a consolare un suo giocatore (Arnautovic) dopo un errore del dischetto.

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Chi la spunterà? «Sembra che la società milanese intenda inviare reclamo alla Federazione, domandando l’annullamento del match, a motivo del calcio di rigore, secondo essa concesso a torto e che valse uno dei punti alla squadra torinese».

Finiva così la cronaca del Corriere della sera a proposito di una delle tante sfide tra Juve e Inter. Torti, reclami, polemiche, una storia infinita. Sembra oggi. Invece era la prima volta, il giornale era quello del 15 novembre 1909, Gianni Brera non era ancora nato. E neanche il derby d’Italia.

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