Il nome del paese significa «terra dei nomadi»: nomadi che sono sempre vissuti a strettissimo contatto con questi animali. Nel vicino Turkmenistan macellare gli equini è un tabù, qui invece no. Anche se può sembrare una contraddizione
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Almaty (Kazakistan) – Nel momento in cui li vedi arrivare per la prima volta li vedi arrivare al galoppo, con nuvole di polvere sotto gli zoccoli, criniere scure al vento tra le dune dei canyon sterminati, non sai se sogni.
Sotto il cielo senza fine nel deserto, sembrano frecce dal manto dorato. O un enorme uccello che vola a terra. Poi si fermano: ti guardano, li guardi, scappano via.
Non lo dimenticherai mai più: niente pareggerà in seguito, da nessuna parte, la visione di quell’orda edenica. Sono i cavalli selvaggi della «terra dei nomadi»: questo vuol dire Kazakistan.
La storia
I cavalli della storia kazaka hanno sempre fatto parte. Oggi gli equini sono omaggiati in ogni mito e disegno che narra la storia nazionale del nono paese più grande al mondo (il primo più sterminato senza accesso al mare) che non sarebbe stata tale senza di loro.
La modernità, le abitazioni altissime grigio sovietico che hanno sostituito iurte e case di legno (insieme agli esperimenti atomici, nei deserti a nord e sud, est ed ovest) sono arrivati soprattutto con l’Urss, insieme alle strade asfaltate dove i kazaki oggi guidano le auto come gli antenati i purosangue, in un galoppo sfrenato senza molte regole.
Comunque nemmeno la falce e il martello hanno eliminato il richiamo delle sirene della steppa. Oggi la tradizione è mutata, l’amore no, e, senza cavalli, in Kazakistan non esisterebbe nemmeno lo sport nazionale: il kokpar, dove nella mischia, per la conquista del fantoccio di una capra, si gettano in corsa non sono atleti umani, ma anche animali, che li trasportano da un lato all’altro del campo.
In tempi remotissimi, già legati per la vita, nomadi e cavalli insieme, conquistarono l’Asia centrale.
Evidenze e ritrovamenti dimostrano che circa cinquemila anni fa, a Botai, settentrione del paese, per la prima volta nella storia, i cavalli sono stati addomesticati dalle tribù che abitavano queste terre.
I przewalski, estinti centinaia di anni fa, ma sopravvissuti in uno zoo praghese, sono tornati dopo secoli d’assenza quando nel 2024 le autorità hanno deciso di ripopolare la steppa.
Un rapporto strettissimo
L’unica vera casa di un nomade era il cavallo. Raminghi gli uomini, raminghi gli animali: l’esistenza di uno non procedeva senza l’altro.
Senza cavalli, i khan non sarebbero stati ciò che più di ogni altra cosa erano: guerrieri; non avrebbero conquistato l’Asia centrale sotto la guida di Gengis che dominò l’impero terrestre più vasto che la terra ricordi.
Cavallo come figlio, padre e fratello. Come amico d’infanzia, compagno di vita, compare di battaglia, soldato di guerra: era tutto questo per gli antenati dei moderni kazaki. Ma anche mezzo di trasporto e – infine – cibo.
Per millenni i nomadi li hanno adorati e cavalcati. Ma pure cacciati e mangiati, senza che alcuna contraddizione sentimentale li frenasse.
Facevano parte, secondo quella cultura ancestrale, di ogni segmento e aspetto del ciclo vitale, che iniziava e finiva con i destrieri dagli zoccoli veloci. E carne equina la mangiano ancora oggi i kazaki che non hanno smesso di tributare amore al loro animale iconico.
Tra due fuochi
Il Kazakistan è come sospeso tra le abitudini culinarie dei suoi vicini. La Cina, ad est, è uno dei più grandi esportatori di carne di cavallo al mondo. Invece a sud, in Turkmenistan (l’ex stato sovietico più spesso paragonato alla Corea del Nord), mangiare l’animale non solo è tabù inviolabile, ma anche reato.
L’ex presidente-autocrate Berdimuhamedov (che ha ora ha ceduto il potere a suo figlio) ha perfino scritto il libro Il volo dei cavalli celesti, organizzato festival di bellezza per cavalli (quelli della razza locale: Akhal Teke) e, nelle infinite immagini diffuse dalla propaganda per imporre il culto della sua personalità, si mostra quasi sempre in sella a un destriero (o dietro la tastiera per i suoi amati karaoke).
Lo splendore dei cavalli asiatici abbacina e la loro grandiosità è sacrilego pensare di poterla assaggiare, prendere a morsi e digerire. Invece in Kazakistan si può mangiare chi veneri, può finire dal cuore allo stomaco chi ami.
Nella steppa
Lungo le rotte della steppa kazaka la traccia di cavallo dopo un po’ ti arriva nelle narici. Se prima riconoscevi da lontano l’olezzo del passaggio di quelli vivi che zoccolano da un cespuglio all’altro, liberi, dopo qualche settimana impari a riconoscere la fragranza dei cucinati.
Non c’è avversione etica nelle cucine asiatiche dove si passano piatti di qazy (salsiccia di cavallo), di manty (ravioli tondi caucasici cotti a vapore, dove all’interno il ripieno è all’agnello speziato e manzo, ma più spesso al cavallo; è una pietanza che in varie versioni, consumano dalla Mongolia alla Cina, dall’Armenia fino a qui), o ciotole di beshbarmak, che vuol dire “cinque dita”, omaggio a quel passato in cui si mangiava con le mani. È il piatto nazionale fatto di carne di cavallo sopra, pasta sotto. Lo puoi rifiutare e passare oltre, non rischi di incappare in qualche stucchevole guerra culturale-alimentare.
Ristorante neonomade
Tra le montagne che circondano Almaty, la vecchia capitale sovietica del Kazakistan che si è vista scippare il primato dalla futuristica Astana, la catena montuosa Medeu è costellata da tappeti di pomi piccoli, succosi e rossastri (questo è il paese delle mele).
Da tutta l’Asia centrale, soprattutto da Russia e Cina, arrivano quassù per mangiare nel ristorante «neonomade» Auyl, una parola che vuol dire «villaggio» nelle antiche lingue turcomanne.
Il ristorante si trova nella struttura gioiello in cui il leader del Kazakistan sovietico Dinmukhamed Kunaev riceveva gli ospiti stranieri per impressionarli con la vista magica dei picchi, un edificio punta di diamante del modernismo sovietico.
un ritorno alle origini
All’ingresso c’è oggi una sella antica, che qualcuno deve aver usato per montare a lungo tra valli e steppe. A fuoco vivo che brucia alto sotto enormi cupole, gli chef cucinano a vista con gli stessi metodi di cottura che usavano gli antenati che ricorrevano ai falò sia per sfidare il buio intorno alle iurte, sia per riempirsi lo stomaco.
Ad Auyl si cucina solo con i prodotti messi a disposizione della terra e dalla stagione, proprio come erano costretti a fare i nomadi. Ma da quando entri, il percorso non è solo gastronomico. Procede piuttosto a tappe temporali.
Inizi a mangiare con tutti e cinque i sensi. Incroci le gambe sulle pelli che coprono il pavimento scuro per unirti ad altri commensali al tavolo basso, ti accovacci nella stessa luce soffusa della steppa, ne senti i suoni: nitriti, crepitio del fuoco, vento.
In quel piccolo universo progettato da architetti, artigiani, designer locali in onore delle loro origini, rimani tra architetture di tessuto che riproducono quelle delle iurte, pendono dal soffitto con simboli di amuleti e totem.
È il loro passato, nel futuro: una specie di ripristino hipster dei tempi ancestrali. Tempi in cui, crudo e cotto, si mangiava cavallo. E decidi, dopo tanti niet, di farlo pure tu.
Non devi per forza pretendere una risposta definitiva dalla strada, la prima volta che decidi di percorrerla tutta: basta arrivare alla tappa in cui capisci che la verità varia, si ribalta e capovolge, a seconda della latitudine.
Forse, si arriva alla fine del mondo proprio per sfidare i propri tabù. Lungo la strada di ritorno, in una delle case dove i discendenti dei nomadi ti offrono una stanza per dormire per arrotondare il salario basso, oltre ad hongkonghesi schifati dalle case di legno, russi scalcagnati e gastarbeiter in arrivo da ogni ’Stan, c’era appeso, sotto un magnete sul frigo, un vecchio articolo del National Geographic americano sui mangiatori e veneratori della carne di cavallo: loro, i kazaki.
Dentro c’era una frase limpida che diceva più o meno così: «Poiché rispettano i loro cavalli, gli americani non li mangiano. Poiché rispettano i loro cavalli, i kazaki li mangiano».
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