La proposta del ministero dell’Istruzione e del Merito di revisione delle indicazioni arriva senza fornire spiegazioni sul perché quelle del 2012 non vadano più bene. Un progetto politico-culturale incapace di affrontare le sfide educative e culturali del nostro tempo. Serve un’azione netta di contrasto al complesso delle politiche scolastiche di questo governo, un’azione compatta a scuola e nelle piazze
Se davvero avessero voluto chiedersi da dove cominciare per migliorare la scuola italiana, il ministero e le sue commissioni sarebbero dovuti entrare nelle scuole per capire quali sono le condizioni materiali in cui si trovano.
Il lavoro di chi insegna oggi si inscrive in uno scenario in sempre più rapido cambiamento, ma allo stesso tempo fortemente condizionato dalla carenza di risorse strutturali, dalla mancanza di una formazione adeguata in entrata e in itinere e dallo svilimento della professionalità docente in termini di condizioni di organizzazione del lavoro, di riconoscimento salariale e sociale, di libertà di insegnamento e di espressione.
In questo quadro arriva la proposta del ministero dell’Istruzione e del Merito di revisione delle indicazioni, senza fornire spiegazioni sul perché quelle del 2012 non vadano più bene.
Quello che noi insegnanti cogliamo nel leggere il nuovo testo è la volontà di determinare una frattura radicale con i principi delle indicazioni 2012, per un progetto politico-culturale che delinea una vera e propria fuga dal futuro, incapace di affrontare le sfide educative e culturali del nostro tempo.
Di fronte alle molteplici crisi a livello planetario che stiamo oggi affrontando, a cui la scuola dovrebbe rispondere con uno sguardo intersezionale capace di leggere la complessità e con il coraggio di costruire nuove culture e nuove pratiche, di fronte alla rapidissima transizione dell’istruzione verso il digitale, l’immateriale e l’incorporeo, di fronte al dilagare delle povertà educative e l’accentuarsi di comportamenti violenti, xenofobi e razzisti, sessisti e omofobi, anche in età molto giovane, ci viene proposta una visione regressiva di scuola, in funzione della sola costruzione e tutela della propria egemonia culturale.
La fuga dal futuro
Il testo proposto è un documento che guarda al passato, che propone un fare scuola trasmissivo, mai di fatto scomparso nelle nostre aule: i suoi banchi allineati, la cattedra, i voti, le note, le punizioni, i libri di testo da seguire pedissequamente ora vengono legittimati da un documento ministeriale.
È un documento che evidenzia l’esigenza di prescrivere più che di indicare, riproponendo la logica del programma da svolgere, perché non si accontenta di ridefinire il paradigma culturale nel quale il nostro fare scuola dovrà muoversi, ma pretende di definire anche i confini di contenuto e di metodo dell’insegnamento.
Ogni paragrafo delle nuove indicazioni calpesta decenni di scuola democratica, di riforme, di ricerca, di studi, di pratiche, che anche il Movimento di cooperazione educativa ha contribuito a costruire, salvo utilizzarne qualche elemento in modo ambiguo e decontestualizzato.
E ancora, è un documento che, parlando di identità nazionale e cultura Occidentale, ignora la pluralità di prospettive, culture, lingue e linguaggi che abitano le nostre classi. Ci viene chiesto di usare le conoscenze come strumento di inclusione per bambini e bambine con background migratorio, per favorirne l’assimilazione ai valori e alle radici del paese in cui vivono, all’identità italiana, eludendo che al contempo gli si nega il diritto ad essere riconosciuti cittadini. E di fatto, creando le condizioni per un contesto in cui le differenze si trasformano in disuguaglianze.
L’orizzonte interculturale tracciato dalle indicazioni del 2012 ci sembra maggiormente in grado di cogliere e integrare le molteplici complessità della scuola, riconoscendole come un fattore di trasformazione non solo del sistema educativo, ma dell’intera società.
Negare le relazioni di potere
nega l’esistenza di relazioni di potere che portano dalle disuguaglianze alla violenza, la violenza agita anche nelle nostre aule, una violenza che non possiamo accettare di definire “triste patologia” perché consapevoli che la dimensione molto complessa e drammatica di questo fenomeno è culturale e strutturale. Non basta anelare a sentimenti di «empatia, tenerezza, incanto e gentilezza» perché le relazioni in classe sono qualcosa di più profondo e articolato da cogliere e gestire.
È un documento, ancora, che nel richiamare la complementarietà dei generiIl documento mentre dichiara di valorizzare la professionalità del Magis, la rende ostaggio di una cornice marcatamente reazionaria, fornendo indicazioni stringenti rispetto a cosa e come fare in classe, concedendo spazi di ingerenza alla famiglia nelle scelte educative e preparando il campo a una pericolosa revisione dei libri di testo.
Evidentemente occorre ribadire che la nostra responsabilità professionale ci rende capaci di costruire un curricolo d’istituto e una progettazione didattica a partire da indicazioni – così come delineate nel 2012 – entro i riferimenti culturali che inquadrano, verso gli obiettivi e i traguardi che ci chiedono di raggiungere e in relazione costante ai contesti specifici a cui devono adattarsi.
Infine, le modalità e i tempi della fase di consultazione delle scuole – immediatamente dopo averci impegnato con un’ordinanza ministeriale a rivedere di nuovo l’impianto valutativo, modificato solo qualche anno fa con la 172 – sono un’ulteriore conferma di quanto poco il governo intenda tenere in considerazione il nostro parere di insegnanti, il parere di chi ha uno sguardo interno e quotidiano sul mondo della scuola, sui suoi bisogni reali e le sue criticità.
Uno sguardo ampio
Due sono le azioni che come insegnanti siamo chiamati a intraprendere:
Continuare a mantenere uno sguardo ampio, con una capacità di analisi complessiva che ricomponga tutti gli aspetti che caratterizzano il nostro fare scuola, quelli culturali come quelli materiali.
Rivendicare e promuovere le pratiche rigorose che portiamo avanti nelle nostre classi, sorrette dalla nostra ricerca didattica e da quella del mondo dell’università, ma allo stesso tempo, fare in modo che quelle pratiche non smettano di essere atti politici.
Un’azione di contrasto
Attraversare quella continua tensione che ci pone nella sfida di contribuire alla crescita della società e dei soggetti che la compongono, attraverso processi di trasformazione mossi dal desiderio. Una scuola capace di autodeterminarsi attraverso un uso politico della professionalità docente, libera da qualunque logica autoritaria.
Svolgere un’azione netta di contrasto al complesso delle politiche scolastiche di questo governo, quelle di carattere culturale come le indicazioni, ma anche le linee guida per l’educazione civica e quelle per l’educazione alle relazioni, quelle di controllo, come il codice di comportamento o il codice etico del personale scolastico o come quelle di organizzazione e distribuzione delle risorse.
Un’azione compatta a scuola, nelle piazze, con famiglie e studenti, con le formazioni sociali che in modo diretto o indiretto hanno a che fare con la scuola, costruendo sinergie e alleanze, promuovendo confronto e mobilitazione nei territori come si sta facendo in molte città italiane.
Come abbiamo fatto rigettando il falso questionario con un documento interassociativo. O come stiamo procedendo a Roma, dove si sta costruendo un’assemblea cittadina, a cui ad oggi hanno aderito più di cinquanta realtà legate al mondo della scuola, che domenica 6 aprile proverà ad aprire un dibattito pubblico sulle criticità di questa fase a partire dalle indicazioni nazionali.
Abbiamo oggi una responsabilità politica chiara: trasformare questo momento fortemente critico, preoccupante, per il futuro della scuola e del paese in qualcosa di generativo, per porre al centro di un vero dibattito pubblico la scuola democratica e fare di essa e della sua qualità una responsabilità diffusa.
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