L’ultimo rapporto della Direzione investigativa antimafia traccia un quadro preoccupante: i gruppi criminali presenti nel paese trasportano anche i migranti verso le coste del basso Salento, mentre Meloni vuole rinchiuderli nei Cpr oltre l’Adriatico. Rama aveva attaccato le nostre inchieste sui clan attivi sul posto
Mentre il governo italiano stringe accordi per la costruzione di Cpr in Albania dove spedire i migranti e il premier Edi Rama attacca Domani per le nostre inchieste legate alla criminalità organizzata attiva nel suo paese, l’ultimo rapporto della Direzione investigativa antimafia traccia un quadro preoccupante sulla mafia albanese.
Una mafia che è attiva anche nel traffico di esseri umani e che trasporta i migranti in Italia mentre il governo Meloni, dalle ultime stime, sta spendendo oltre 800 milioni di euro per tenerli in Albania.
Secondo quanto si legge nella relazione pubblicata il 18 giugno, i gruppi criminali trasportano «dai litorali albanesi sul territorio italiano su potenti gommoni e imbarcazioni a vela, attraverso il Canale d'Otranto, numerosi migranti di varia etnia». Si tratta di persone originarie prevalentemente dall’Iran, Pakistan, Iraq, Egitto, Siria e Afghanistan. Gli stessi che da anni utilizzano la rotta Balcanica via terra per entrare all’interno dell’Unione europea pagando decine di migliaia di euro, subendo violenze e respingimenti dalle guardie di frontiera che presidiano i Balcani e rischiando la propria vita in mare.
La criminalità albanese sfrutta però anche rotte terrestri, come dimostra un’inchiesta conclusa nel giugno del 2023 e citata nella relazione della Dia. Lo scorso anno le forze dell’ordine avevano smantellato un’organizzazione composta da kosovari e dieci albanesi attivi su Trieste, che favorivano gli ingressi irregolari in Italia attraverso il confine croato-sloveno.
La criminalità albanese
Se prima erano soprattutto manodopera organizzata per i grandi gruppi criminali italiani, gli albanesi si sono poi rafforzati nel tempo e sono stati capaci di emanciparsi dai loro “padrini”. Oggi vantano relazioni anche con mafie potenti come la ‘ndrangheta e la camorra, e una rete di affiliati a livello internazionale che garantisce loro l’approvvigionamento delle sostanze stupefacenti a prezzi competitivi rispetto ad altri gruppi. Svolgono principalmente il ruolo di broker e intermediari, visto che sono «capaci di interloquire direttamente con i cartelli sudamericani per l'importazione» della cocaina.
La mala albanese, infatti, ha emissari in Ecuador e Perù, oltre a relazioni strutturate con il Clan del Golfo in Colombia. Mentre i gruppi presenti all’interno dell’Unione europea si servono di bande di connazionali per fare arrivare e smerciare la cocaina nelle principali città, tra cui anche quelle italiane.
A dimostrarlo è anche l’ultima inchiesta della procura di Roma che ha portato all’arresto di Marcello Colafigli, ex boss della Banda della Magliana che una volta tornato in semilibertà ha messo in piedi un’organizzazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti, servendosi di intermediari albanesi che avevano contatti con un cartello colombiano attivo a Turbo, nella provincia di Medellin. Gli stessi albanesi organizzavano per Colafigli l’arrivo di centinaia di chili di hashish dalla Spagna per 1.700 euro al chilogrammo, da rivendere a 4.500, consegnata attraverso i doppi fondi dei camion.
D’altronde, a Roma il ruolo della mala albanese è ben noto ed è legata anche alle vicende giudiziarie di Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, il narcotrafficante e ultrà della Lazio ucciso a colpi di pistola nel parco degli Acquedotti nell’agosto del 2019.
Piscitelli si serviva di diversi albanesi attivi su Roma e provincia come Arben Zogu, Elvis Demce e Dorian Petoku, di recente evaso da una comunità di tossicodipendenti a Nola, dove stava scontando la pena dopo un lungo processo burocratico per ottenerne l’estradizione.
Per conto di Diabolik gli albanesi facevano i “picchiatori”, recuperando i crediti delle estorsioni e smerciando droga per le strade. Ma la batteria era – come scrivono gli inquirenti – anche «al servizio dei “napoletani”, insediatisi a Roma Nord, tra cui i fratelli Esposito, Salvatore e Genny, facenti capo a Michele Senese» che da anni controlla il traffico di sostanze stupefacenti su Roma.
Il controllo dei porti europei
Gli albanesi sono «consorterie ben strutturate e sorrette da una forte componente solidale, rafforzate spesso al loro interno da legami di parentela», si legge nella relazione della Dia. Sono considerati affidabili anche perché sono rarissimi i collaboratori di giustizia, proprio per via dei gradi di parentela che spesso ci sono all’interno dei gruppi criminali.
Inoltre, utilizzano tecniche astute per correre meno rischi possibili, anche a costo di guadagnare cifre più basse, come quella del “cotto e mangiato”, che consiste nel vendere il carico di droga prima ancora di arrivare a destinazione. Si eliminano così i rischi legati al deposito e lo stoccaggio della droga, che viene venduta così come arriva dai paesi di origine.
Ma una delle più grandi intuizioni della mafia albanese è stata la capacità di sapersi infiltrare nei vari porti del nord Europa, dove arrivano i container carichi di cocaina dal Sudamerica. I porti di Anversa, Rotterdam e Amburgo sono praticamente sotto il loro controllo grazie alla corruzione a alla capacità di piazzare i loro uomini all’interno del personale portuale. Ma a garantire loro protezione sono stati mezzi di comunicazione all’avanguardia come i criptofonini Skyecc, solo da pochi anni decriptati dagli investigatori internazionali.
Come se non bastassero i fatti di cronaca accertati e le inchieste giornalistiche, anche la Dia smentisce le affermazioni di Edi Rama sulla pericolosità della mafia albanese.
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