Gli autori degli abusi sono soprattutto capi o colleghi maschi. Seguono colleghe e cape. Come emerge dallo studio realizzato per il 25 novembre, la precarietà e la perdita del potere sindacale hanno contribuito a rendere i luoghi di lavoro meno sicuri: «Mai come ora è necessario mettere in discussione le dinamiche di prevaricazione»
«Avevo circa 28 anni, ero fidanzata e avevo un lavoro appagante. Un giorno, io e i miei colleghi fummo ingaggiati da uno studio per fare un’osservazione e una valutazione sulle capacità di insegnamento e di comunicazione di un uomo noto nel calcio, che voleva cominciare un’attività di formazione in campo sportivo. Questo signore propose a me e a un collega di provare il suo metodo di training autogeno. Il mio collega si offrì per primo e io potei assistere alla pratica in un ambiente aperto a tutti i presenti. Poi, il signore invitò me. Proponendomi di andare solo noi due in una delle nostre stanze di lavoro». Lo racconta Maria, che ha preferito un nome di fantasia per tutelare l’identità di una donna di 46 anni.
«Ero abbastanza diffidente, per cui gli proposi la mia stanza con vetrata in modo che tutti avrebbero visto che cosa succedeva all’interno. Ma lui velocemente mi fece entrare nella stanza di una collega con la porta chiusa. Mi fece sedere e si posizionò dietro allo schienale della sedia, cominciando a farmi un messaggio alle spalle per poi scendere e toccarmi il seno e la pancia fino al pube. Fu tutto molto veloce e, anche se mi accorsi benissimo che stava violando i confini del mio corpo, mi sentii bloccata nella reazione che avrebbe meritato, perché era un nuovo personaggio di punta dello studio partner e tutti i colleghi erano là, fuori dalla nostra porta», ricorda la lavoratrice.
«A metà opera mi chiese se andasse tutto bene e io purtroppo gli dissi di sì, anche se non era vero, ma mi sentivo molto imbarazzata e confusa. Appena sentii toccare la vagina, però, gli dissi che avevo le mestruazioni e che fosse ora di andare».
Quella di Maria è una delle 140 testimonianze anonime di persone che hanno subito molestie sul lavoro, raccolte da WeWorld – organizzazione italiana indipendente impegnata a garantire i diritti di donne e bambini in oltre 25 Paesi, tra cui l’Italia – per la realizzazione del rapporto “Non staremo al nostro posto. Per il diritto a un lavoro libero da molestie e violenze”. Lo studio è stato pubblicato in occasione del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, con l’obiettivo di analizzare e denunciare i comportamenti abusanti che ancora oggi caratterizzano i luoghi di lavoro, intrecciandosi con dinamiche di precarietà, gerarchia e prevaricazione.
Dalle molestie sessuali al linguaggio sessista e discriminatorio: dal rapporto emerge che il 60 per cento delle persone intervistate ha assistito ad abusi sul lavoro. Mentre il 22 per cento li ha subiti almeno una volta nella vita sulla propria pelle. Il dato sale al 28 per cento se si stringe il focus solo sulle donne che, nella maggior parte dei casi – una su due – hanno subito violenza da un superiore uomo.
Gli autori delle molestie sul lavoro, infatti, sono soprattutto capi (42 per cento) o colleghi uomini (35 per cento). Seguono poi, colleghe (22 per cento) e cape donne (13 per cento). Secondo le dichiarazioni degli intervistati, le forme di violenza più diffuse sono, in ordine: la violenza verbale, il mobbing e l’abuso di potere. Chiudono l’elenco delle molestie più frequenti, la violenza fisica, lo stalking e violenza online.
Mancata denuncia
Dall’indagine WeWorld-Ipsos emerge anche che, come testimoniano anche gli ultimi dati Istat, chi subisce molestie denuncia di rado. Una delle ragioni principali che spinge le vittime a non farlo è la paura di perdere il lavoro. Un timore condiviso dal 49 per cento degli intervistati, percentuale che sale al 62 per cento tra le donne. Ma c’è anche chi racconta di non rivolgersi alle forze dell’ordine per paura di ritorsioni da parte di chi ha commesso la violenza. E chi è convinto, il 41 per cento, che denunciare non servirebbe a nulla.
Dal rapporto, però, non si evince solo che le molestie sul lavoro sono molto frequenti. Ma emergono anche le conseguenze che queste hanno sulla vita di lavoratrici e dei lavoratori: stress e ansia sono gli effetti più comuni, segnalate dal 56 per cento delle persone intervistate. Seguono la sindrome da burnout, la diminuzione dell’autostima, le dimissioni e la depressione.
«Le molestie sul lavoro sono una delle tante manifestazioni del patriarcato, un sistema che danneggia non solo le donne, ma anche gli uomini. Negli ultimi decenni, il diritto a condizioni di lavoro sicure e dignitose è stato indebolito da politiche che hanno ridotto il potere sindacale, incentivato la riduzione del personale e favorito la delocalizzazione, creando una vulnerabilità diffusa che spinge molte persone, a a partire dalle donne, che vivono una costante situazione di discriminazione, ad accettare condizioni di lavoro difficili, mettendo in secondo piano i propri diritti e subendo maltrattamenti, discriminazioni e molestie» commenta Martina Albini, Coordinatrice del Centro studi di WeWorld a proposito del risultati del rapporto.
Ecco perché «mai come ora è fondamentale mettere apertamente in discussione le dinamiche di prevaricazione alla base di questi abusi e lavorare per costruire ambienti di lavoro sicuri e rispettosi per tutte e tutti», conclude la ricercatrice, con l’obiettivo di promuovere una serie di interventi concreti volti a prevenire le molestie e a generare un cambiamento all’interno di aziende e uffici.
Come percorsi di formazione in tutte le aziende, perfezionamento degli strumenti per la valutazione dei rischi, adozione di un codice di condotta che tuteli lavoratori e lavoratrici nei casi di violenze e molestie sul luogo di lavoro. Oltre all’introduzione di curricula obbligatori di educazione alla sessualità e all’affettività nelle scuole di ogni ordine e grado, ad esempio. E promozione di campagne di sensibilizzazione rivolte a tutta la popolazione.
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