Le ombre sulle dinamiche che hanno portato all’uccisione di Moussa Diarra, il 26enne maliano ucciso da un agente della Polfer davanti alla stazione di Verona il 20 ottobre, sono molte. Almeno secondo chi in queste settimane ha continuato a porre domande. E che sabato è sceso in piazza nella città veneta dietro lo slogan «Verità e giustizia per Moussa Diarra».

Durante l’autopsia, svoltasi lo scorso giovedì, non sono stati rinvenuti segni di colluttazione. Un dato che, unito al fatto che il proiettile che lo ha ucciso non è stato sparato a distanza ravvicinata, quindi non durante un corpo a corpo, solleva qualche perplessità sulla ricostruzione dell’accaduto in cui, da subito, si è parlato di «legittima difesa» e di un ragazzo in preda a un raptus di violenza incontrollabile verso le autorità e l’ambiente circostante.

Il biologo molecolare e criminologo forense, Abdou M. Diouf, ha molti dubbi sulla versione rilasciata dalle autorità veronesi. Non ha ancora visto il famoso coltello con cui Diarra avrebbe minacciato gli agenti né i video delle telecamere della stazione: «Se sei sicuro del tuo operato, perché fare mistero di questi video?». Nessun elemento probatorio in grado di attestare la legittimità dell’operato del poliziotto è stato reso pubblico.

Inoltre ci si chiede perché a Diarra non sia stato fatto un Tso e non sia stata chiamata un’ambulanza data la fragilità psicologica in cui si trovava, e perché, nelle due ore precedenti alla sua uccisione, non vi sia stato un intervento massiccio delle forze dell’ordine nonostante abbia iniziato a sfogare la sua rabbia verso la biglietteria e la tabaccheria già dalle prime ore dell’alba.

E tutto ruota intorno a una domanda, forse la più importante: quel colpo di pistola era veramente necessario? Diarra è stato trattato come una persona qualunque o ci sono stati (evidenti) pregiudizi razziali che hanno portato l’agente a comportarsi in questa maniera?

Le risposte verranno alla luce solo nei prossimi mesi di indagini, ma, dopo il report diffuso dalla Commissione antirazzismo del Consiglio d’Europa (Ecri) che ha parlato apertamente di «profilazione razziale» delle forze dell’ordine italiane, e dopo che, già a settembre, un documento delle Nazioni unite aveva denunciato lo stesso problema, lo scenario è sicuramente inquietante.

Il comitato “Verità e giustizia per Moussa Diarra” sta provando a smascherare le crepe di un sistema che – più che proteggere – segrega e stigmatizza. L’uccisione del ragazzo maliano, denunciano, evidenzia un razzismo istituzionale radicato, che tratta la vulnerabilità come una colpa e il colore della pelle come una minaccia.

Le domande sul caso restano urgenti e provocatorie: l’Italia saprà finalmente riconoscere e scardinare i pregiudizi che alimentano discriminazione e violenza o continuerà a chiudere gli occhi davanti a queste violazioni dei diritti umani sulla pelle delle persone nere?

«A noi mancherà»

Di certo la frase con cui il vicepremier Matteo Salvini ha commentato la notizia della morte di Diarra («Non ci mancherà») conferma che il problema è molto più ampio e coinvolge, oltre alle forze dell’ordine, anche chi ricopre altri ruoli istituzionali.

D’altronde le sue parole confermano un passaggio del dossier dell’Ecri in cui si sottolinea come «le narrazioni politiche convenzionali promuovono una cultura di esclusione più che di integrazione e inclusione dei migranti» e che «un certo numero di dichiarazioni e commenti considerati offensivi e carichi di odio proviene da politici e funzionari pubblici di alto profilo, soprattutto durante i periodi elettorali, sia online che offline».

Non a caso i rappresentanti istituzionali del centrodestra non si sono trattenuti e sono corsi subito a esprimere la propria vicinanza all’agente, sotto indagine per eccesso di legittima difesa, senza aspettare nemmeno una ricostruzione accurata dei fatti.

«A noi Moussa mancherà» e «basta razzismo istituzionale» è stata la risposta della piazza veronese di sabato. Durante la manifestazione molti partecipanti africani e afrodiscendenti hanno indossato cartelli con un semplice bersaglio, indicando senza l’uso di parole come si sentono percepiti dalle istituzioni italiane.

Youssef Moukrim, attivista antirazzista e consulente legale dello Sportello per i diritti, non ha dubbi: «Questa non è una morte casuale, si inserisce in uno schema discriminatorio molto più ampio. Dopo pochissimo tempo dall’accaduto si dava già per certo che Moussa fosse un delinquente, assolvendo quindi l’operato dell’agente».

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