L’esecutivo mette in preallerta il tribunale di Roma: migranti nel cpr già dalla prossima settimana. Meloni non vuole aspettare la risposta della Corte di giustizia europea alle toghe bolognesi. Lo stato spende 9 milioni di euro per 12 mesi solo per mantenere 295 agenti nei centri albanesi
«Pronto? Volevamo solo avvisarvi che nei prossimi giorni partirà un’altra nave per l’Albania». È questa, in estrema sintesi, la comunicazione che martedì scorso arriva agli uffici del tribunale di Roma.
La telefonata parte da via Arenula, sede del ministero della Giustizia, e serve a preavvisare le toghe a “fini organizzativi”. E a comunicare, senza troppi giri di parole, che il braccio di ferro col governo sulla gestione dei migranti non è affatto finito, dopo la decisione del tribunale di Bologna di rinviare alla Corte di giustizia europea il decreto sui cosiddetti paesi sicuri.
L’annuncio per le vie brevi fa balzare sulla sedia i vertici della magistratura capitolina, sicura, fino a quel momento, di aver raggiunto una “tregua” col governo – dopo la mancata convalida dei trattenimenti oltre Adriatico – in attesa di un pronunciamento della corte lussemburghese. Nessuna pausa invece.
Palazzo Chigi non intende fare alcun passo indietro in materia di gestione dei migranti, a costo di lanciarsi in una sfida a viso aperto al potere giudiziario, colpevole, secondo la maggioranza, di voler interferire con le sue scelte politiche.
Il modello albanese non può essere messo in discussione. Ed è già tutto pronto per l’invio di una nuova imbarcazione verso i centri di Shengjin e Gjader, come confermano a Domani fonti del Viminale: la prossima settimana ricominceranno le missioni, senza aspettare alcun parere della Corte di giustizia europea. Anche a costo di continuare a spendere, per ora a vuoto, altro denaro pubblico: 9 milioni di euro per 12 mesi solo per mantenere i 295 agenti di polizia a guardia dei centri.
Lo scontro con le toghe
Per il governo è una questione di coerenza e determinazione: le scelte politiche non possono essere messe in discussione da un tribunale, secondo la linea dettata da Giorgia Meloni, che ha liquidato come «un volantino propagandistico» la decisione dei giudici di Bologna.
«L’accusa di politicizzazione mediaticamente imbastita raggiunge qualunque magistrato, sol che decida in senso contrario alle attese del governante di turno», si è difesa ieri la giunta esecutiva centrale dell’Anm. «Si respira un’aria pesante», per il “sindacato delle toghe”, «confidiamo fermamente che tornino a prevalere il rispetto istituzionale e la ragione democratica».
La scelta dei magistrati emiliani, in effetti, non sembra affatto avere il sapore della propaganda, pone semmai una questione centrale di diritto: può una legge ordinaria italiana prevalere sulla giurisprudenza sovranazionale? E ancora: quali sono i parametri oggettivi per definire “sicuro” un paese? Perché «rientra nella logica del rinvio pregiudiziale che la Corte di Giustizia sia invocata quando occorra dissipare gravissime divergenze interpretative del diritto europeo, manifestatesi nel caso di specie in modo obiettivo e virulento in seguito ad alcuni provvedimenti giurisdizionali sino alla decretazione d’urgenza», scrivono i giudici di Bologna nel loro provvedimento. E «in presenza di un gravissimo contrasto interpretativo del diritto dell’Unione, qual è quello che attualmente attraversa l’ordinamento istituzionale italiano, il rinvio alla Corte è opportuno al fine di conseguire un chiarimento sui principi del diritto europeo che governano la materia».
Nessuna propaganda, dunque, ma una normale prassi giurisprudenziale. Al centro della richiesta d’approfondimento dei giudici bolognesi, inoltre, c’è la definizione di paese sicuro, visto che il rinvio nasce dal ricorso presentato da un cittadino del Bangladesh (nell’elenco governativo dei luoghi sicuri) che si è visto negare la richiesta d’asilo dalla commissione territoriale di competenza.
A stonare, per i giudici bolognesi, è il principio secondo il quale potrebbe essere considerato sicuro qualunque stato in cui la maggioranza della popolazione viva in condizioni di sicurezza.
Ma «la persecuzione è sempre esercitata da una maggioranza contro alcune minoranze, a volte molto ridotte. Si potrebbe dire, paradossalmente, che la Germania sotto il regime nazista era un paese estremamente sicuro per la stragrande maggioranza della popolazione tedesca: fatti salvi gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori politici, le persone di etnia rom ed altri gruppi minoritari», si legge ancora nel provvedimento dei giudici.
Il nuovo decreto
Il paradosso è lampante, ma serve a mostrare le contraddizioni più rilevanti della legislazione. Poca cosa per il governo, che nel frattempo ha deciso di far confluire il decreto appena varato all’interno di un altro provvedimento: il decreto Flussi, di cui sarà un emendamento.
L’obiettivo è velocizzare tutte le procedure di approvazione – il testo sarà presentato alla Camera il 21 novembre – aggirando il dibattito parlamentare.
«Il decreto iniziale avrebbe seguito il normale iter, comprese le audizioni di molte organizzazioni e associazioni che si occupano di immigrazione», ci spiega Fulvio Vassallo Paleologo, giurista esperto di diritto d’asilo. «Si stravolge la funzione del parlamento nella conversione dei decreti legge. Con un emendamento al decreto Flussi si saltano tutte le tappe e si aggira la discussione parlamentare».
Ma l’idea della scorciatoia è smentita dal governo che, per bocca del ministro dei Rapporti col parlamento Luca Ciriani, ha specificato: «Dopo aver ovviamente avvisato tutte le parti interessate, abbiamo preferito rinunciare alla conversione del decreto legge Paesi sicuri in Senato e presentare al decreto Flussi, in esame alla Camera, un emendamento in cui confluiscono i contenuti del decreto stesso. La decisione non vuole assolutamente ledere le prerogative parlamentari, ma essendo i due provvedimenti affini per materia e strettamente connessi tra di loro, riteniamo per questo opportuno che vengano esaminati insieme». Balle, secondo le opposizioni, che hanno accusato la maggioranza di voler mortificare il parlamento.
In attesa del 21 novembre e del parere della Corte di giustizia europea, il decreto Paesi sicuri resta comunque in vigore. Come attivi, anche se per ora vuoti, restano i centri in Albania. Il governo spera di riempirli a breve. O almeno ci proverà a partire dalla prossima settimana. A costo di sfidare ancora una volta la magistratura italiana.
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