Gli arrivi via mare registrati sono diminuiti del 63 per cento. Il governo continua a spendere per reprimere. Complici le politiche di esternalizzazione, spesso contrarie ai diritti umani
Pezzo dopo pezzo il sistema del governo Meloni per bloccare i flussi migratori, anche in violazione dei diritti umani, si sta sgretolando. Appalti e spese da milioni di euro non giustificate dai numeri del ministero dell’Interno. Come ha dichiarato anche il ministro Matteo Piantedosi alla Camera, gli arrivi via mare sono diminuiti del 63 per cento rispetto all’anno scorso, e del 20 per cento circa rispetto al 2022.
Al 30 agosto di quest’anno sono stati registrati 8.050 ingressi via mare, nell’agosto 2023 si contavano 25.673 arrivi, mentre l’anno precedente erano 16.822. Piantedosi li ha definiti «importanti risultati» frutto delle «strategiche linee di azione dell’esecutivo». Molte delle politiche messe in campo dal governo sono però, da un lato, dubbie dal punto di vista delle garanzie e del rispetto dei diritti e, dall’altro, strumenti dai costi sproporzionati costruiti con la massima urgenza, salvo poi rimanere bloccati per problemi pratici o giuridici.
Basti pensare ai centri che il Genio militare sta costruendo in Albania, che secondo le stime sfiorano un miliardo di euro, in ritardo a causa di «diverse difficoltà operative», ha detto ieri la premier. Ma tempi lunghi e possibili intralci erano già stati previsti dal cronoprogramma che fissava a ottobre/novembre il termine per le condizioni del luogo.
Agli ingenti sforzi e spese per la costruzione si aggiungono poi le criticità sul piano dei diritti. Il governo – oltre a posticipare in continuazione l’apertura – non ha ancora chiarito come verranno rispettate le garanzie delle persone che verranno deportate in altro stato e private della libertà personale. A partire dal diritto di difesa, che sembra impossibile assicurare a pieno.
Centri di detenzione
Intanto il tribunale di Palermo con le pronunce del 27 agosto ha messo, di nuovo, in dubbio l’applicazione del decreto Piantedosi, che prevede il trattenimento per i richiedenti asilo che provengono dai “paesi di origine sicuri”, a meno che non venga consegnato il passaporto o pagata una cauzione. Una norma ora al vaglio della Corte di giustizia Ue. Le giudici del capoluogo siciliano non hanno convalidato il trattenimento di cinque cittadini tunisini al centro di Porto Empedocle. Un’altra struttura realizzata in tutta fretta per trattenere ad oggi una sola persona, con uno stanziamento di 750mila euro per la sola gestione. Alle accuse della destra di governo, e di stampa, alla magistratura, il presidente del tribunale di Palermo ha risposto spiegando che i magistrati hanno «applicato i medesimi principi giuridici (fondati su fonti interne e internazionali) a situazioni in concreto diverse, dandone conto nelle motivazioni».
Nel frattempo del progetto iniziale del governo, annunciato dopo il naufragio di Cutro, di aprire un Centro di permanenza per i rimpatri in ogni regione non si hanno notizie, se non informazioni drammatiche. Neanche un mese fa, l’ultimo decesso, su cui ci sono ancora diversi dubbi: Osama, un ragazzo di 19 anni di origine algerina, è morto nel centro in Basilicata.
Lo scorso febbraio un ragazzo di 22 anni, Ousmane Sylla, si è suicidato nel Cpr di Roma. Le prefetture hanno però messo di nuovo a bando la gestione dei centri di Milano e Torino, con una gara di 8,5 milioni per quest’ultimo, distrutti dalle proteste per le condizioni inumane e poi ristrutturati con ingenti fondi.
Un sistema di detenzione amministrativa, senza reato, che interessa ogni anno poco più di 3mila rimpatri, in cui la violazione dei diritti umani è sistematica, denunciano avvocati e organizzazioni della società civile. L’approccio è quello della detenzione, da parte delle istituzioni, senza considerare – come emerge dal rapporto di Action Aid – che nel 2022 si contavano circa 15mila posti disponibili nei centri di accoglienza.
“Paesi sicuri”
Il governo italiano, così come la Commissione europea, hanno poi deciso di continuare il lavoro iniziato dall’ex ministro Pd Minniti nel 2017 di esternalizzazione delle frontiere, attraverso la firma di accordi con i paesi di origine o di transito per bloccare le partenze. La Libia prima, la Tunisia, l’Egitto, poi. Accordi che prescindono dal rispetto dei diritti in quei paesi, impedendo di fatto garanzie come l’asilo.
È lo stesso ministero degli Esteri che, come aveva scritto Domani, nel designare 22 paesi sicuri mette in evidenza l’insicurezza, il rischio di violazioni, torture e persecuzioni in molti di questi stati. Considerati comunque sicuri, impongono alle persone le procedure accelerate di frontiera, cioè meno garanzie, tempi ristretti e una buona possibilità di vedersi negata la domanda di asilo.
È la somma di queste politiche a incidere sul calo dei numeri. Ma qual è il costo umano? E fino a che punto verrà tollerata la deroga di diritti fondamentali?
Mentre la Germania si scaglia contro l’Italia per il numero di persone prese in carico provenienti dal nostro paese e l’indisponibilità di Roma a una redistribuzione, l’unico a cambiare la narrazione nell’Ue e voler puntare sui canali di ingresso regolari è il premier spagnolo Pedro Sánchez, che ha visitato Mauritania, Gambia e Senegal. E in Italia si investe sulla detenzione e si crea altra illegalità.
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