Dopo la haka, la waka. È la grande canoa maori, che riporta a certe magnifiche scene di Lezioni di piano, che ha accompagnato le regate di Team New Zealand, lanciata a Barcellona verso la conferma del possesso dell’America’s Cup, verso la quinta vittoria in undici “campagne”, verso il terzo successo di fila, questa volta chiudendo 7-2 contro Britannia di Ben Anslie, corroborata dal denaro di Jim Radcliffe, padrone di Ineos e da qualche tempo anche del Manchester United.

Sfiorato il cinquanta per cento tra assalti e successi. Tutti quelli, vivi o morti, che hanno tentato, senza riuscire nella conquista della grande caffettiera d’argento, non possono che provare ammirazione e invidia.

La barca, una guardia d’onore, ha il suo leader in Graham Tipene, l’equipaggio è formato da membri della tribù Ngati Whatua Orakei, è stata ricavata dal tronco di un kauri, uno dei grandi alberi delle foreste pluviali, ed è stata battezzata Te Kawau, in onore di un cormorano noto per la sua perseveranza. È un altro singolare pennuto, dopo il kiwi, che fa la sua comparsa. L’uno e l’altro hanno ali piccole e poco utili ma sono i simboli di un paese che sa volare alto. E molto forte sull’acqua.

Prima di ogni regata i pagaiatori hanno eseguito una haka e alcuni di loro sono saliti a bordo di Team New Zealand per preghiere e riti propiziatori. Tradizioni ancestrali e supertecnologia delle barche volanti possono convivere. È stato Grant Dalton, deus ex machina di New Zealand, a invitare gli uomini della waka a Barcellona: «Un segno del nostro rispetto per le radici di Aotearoa».

Perché il paese che ha il nero come colore distintivo in maori significa “la lunga nuvola bianca”, un ricordo del lungo girovagare sull’oceano del popolo polinesiano prima di avvistare, sulla linea dell’orizzonte, una terra in cui sbarcare, molti secoli prima che finisse nella rotta dell’olandese Abel Tasman e vedesse l’arrivo dei primi bianchi, i pakea. Nel 1851, quando la Coppa vide la luce a Cowes, isola di Wight, la Nuova Zelanda era diventata da poco colonia della Corona.

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Ai Giochi

Per il paese, un anno trionfale. Nel medagliere olimpico parigino che tiene conto del rapporto tra popolazione e allori, e che mette in fila i paesi con almeno un milione di abitanti, l’arcipelago che sta sotto i nostri piedi è in vetta, come capitò, poco più di settanta anni or sono, a Edmund Hillary, il neozelandese secco ed essenziale come un albero scolpito dal vento, che domò l’Everest: 20 medaglie, dieci d’oro, con formidabile apporto delle donne, otto su dieci.

Lisa Carrington ha e avrà un posto eterno nella loro Hall of Fame: a Parigi ha aggiunto altri tre successi nel kayak, da sola, nel K2 e nel K4, toccando quota 8 (come Usain Bolt…) e finendo per avere accesso nell’empireo dei Giochi moderni, estivi e invernali. Le altre vittorie sono venute dal ciclismo su pista (due, di Ellesse Andrews), dal golf (Lydia Ko), dal due di coppia di canottaggio (Brooke Francis e Lucy Spoons) e dal rugby a 7.

Gli uomini hanno partecipato alla formidabile collezione con Finn Butcher, vincitore del kayak cross (specie nell’isola sud, uno sterminato museo all’aperto della conservazione dell’ambiente, vie d’acqua naturali per allenarsi si incontrano passo dopo passo) e con Hamish Kerr, oro, dopo spareggio con l’americano McEwen, nel salto in alto. Un outsider, capace di approfittare della poca salute di Gimbo Tamberi e del fatale trascorrere del tempo di Mutaz Essa Barshim? Solo in parte. Kerr, quest’anno, aveva già messo le mani sul titolo mondiale indoor proponendo una rincorsa lenta, ritmata, efficace.

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La crisi degli All Blacks

Strano ma vero, il rugby, simbolo del paese al fianco della lana, della carne ovina, del burro, della frutta, non è stato all’altezza della sua storia. Da qualche mese gli All Blacks hanno un nuovo allenatore, Scott Robertson detto Razor, a lungo condottiero dei Crusaders, dominatori del Super Rugby, la Champions dell’emisfero sud. Dopo due faticati successi sull’Inghilterra, i Neri hanno concesso una gloriosa giornata all’Argentina a Wellington e si sono arresi due volte, dopo dure battaglie su suolo sudafricano, agli Springboks campioni del mondo. Tre sconfitte in sei partite, abbastanza per parlare di crisi, per aprire un dibattito.

Alle radici, una sempre più fitta emigrazione verso il campionato giapponese che assicura forti ingaggi. Non è un fenomeno nuovo ma un tempo erano i giocatori che avevano imboccato il viale del tramonto a volare nel campionato governato dalle grandi corporazioni.

Oggi il giro è più vasto e complesso, riguarda anche trasferimenti verso i club europei e finisce per comprendere anche giocatori di seconda e terza schiera che in patria non avevano ancora mostrato le proprie potenzialità. Gli esempi più chiari riguardano Lowe e Gibson-Park, equiparati come irlandesi e armi letali per la squadra in verde, campione nel 6 Nazioni e in vetta al ranking mondiale.

Gli All Blacks non sono malati ma accusano un insolito affanno, non sono riusciti a colmare i vuoti lasciati, specie tra gli avanti, da giocatori che hanno lasciato un profondo segno, stanno mostrando sterilità in secondi tempi problematici, non riescono più ad affondare il coltello della loro intensità nella ferita dell’avversario, finendo per affidarsi ai colpi da maestro, alle intuizioni di Beauden Barrett, di Will Jordan, di Caleb Clarke e dell’unica vera novità dell’ultima covata, Wallace Sititi.

Per capire se il malessere è passeggero o più grave, non resta che attendere il nuovo faccia a faccia tra antichi padroni e vecchi colonials: il 2 novembre, a Twickenham, Inghilterra-Nuova Zelanda.

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