Di fatato c’è pochissimo nell’oro della ginnastica. È come le paillettes: da lontano luccicano, ma se le guardi da vicino vedi tutte le cuciture, il filo che le tiene assieme, e qualche inaspettata cicatrice. Dei risultati degli sport olimpici siamo abituati a prendere la superficie, dividiamo volentieri la gioia di quell’attimo sul podio, ci sentiamo orgogliosi, come se parte di quelle medaglie fosse per qualche inesplicabile motivo un po’ anche merito nostro, ma non saremmo disposti a spartire neanche un giorno della routine militaresca necessaria (ma non sufficiente) per diventare campioni.

Le atlete che hanno portato la ginnastica femminile a livelli mai raggiunti prima le chiamiamo semplificando fate, forse perché sono leggere, colorate, e sembra che volino, e sanno fare gli incantesimi. Ma non c’è niente di magico: se saltano, se volano, se in aria sanno disegnare acrobazie, è perché hanno ripetuto quei gesti per giorni, settimane, mesi, anni, fino alla perfezione.

Della retorica del gruppo, della squadra «come una famiglia» e delle atlete «come sorelle» è pieno il racconto dello sport. Ma nelle squadre di ginnastica la dinamica della famiglia e della sorellanza esiste davvero: è stata replicata in vitro, al centro federale di Brescia. Una creazione del ct azzurro Enrico Casella, ingegnere nucleare, un passato nel rugby, una dedizione assoluta alla ricerca del talento in tutta Italia e alla formazione del gruppo.

Insieme, con il gruppo di Casella ad occuparsi anche di tutte le necessità pratiche, hanno trascorso gli ultimi dieci anni Vanessa Ferrari, Angela Andreoli, Giorgia Villa, Elisa Iorio e le gemelle D’Amato. Negli ultimi due si è aggiunta Manila Esposito, 17 anni, napoletana di Boscotrecase, cresciuta tra Torre Annunziata e Civitavecchia prima di votarsi alla ginnastica artistica. Dietro i successi – ma anche dietro alle sconfitte, e agli infortuni – c’è una disciplina feroce, un lavoro costante ed estenuante, la capacità di non piegarsi di fronte alle ingiustizie e alle avversità, l’allenamento alla sconfitta.

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Un gruppo

«I primi anni andavamo a scuola la mattina e facevamo gli allenamenti il pomeriggio. Dopo la seconda media abbiamo iniziato a frequentare una scuola privata che ci permetteva di fare gli allenamenti la mattina e il pomeriggio e le lezioni la sera». La routine consta di sveglia all’alba, palestra quattro giorni a settimana dalle 8.30 alle 13 e dalle 14 alle 16, altri due giorni dalle 8.30 alle 12.30. e la sera la scuola.

«Il nostro punto di forza della squadra è l'unione. Ci siamo trovate a 10 anni e abbiamo fatto tutto il percorso insieme. In altre nazioni è diverso. Noi abbiamo vissuto, pianto e riso tutto insieme e questo per noi è stato tanto. Abbiamo una cosa in comune: la pazzia, perché se non sei pazza questo sport non lo fai». Una frase leggera per dire una cosa pesante: chi si dedica con questa costanza a uno sport baratta l’adolescenza con un sogno. Conosciamo le storie di chi ce l’ha fatta. Ma dietro ci sono tutti gli altri, quelli a cui non dedichiamo neanche un pensiero.

Per le atlete dell’Accademia di Brescia – il nuovo centro per la preparazione olimpica dovrebbe essere completato entro il 2026 nel quartiere Sanpolino di Brescia – è stato un crescendo: il bronzo mondiale nel 2019, il quarto posto ai Giochi di Tokyo tre anni fa a un pugno di punti dal podio, l’oro europeo a Monaco 2022, e a Parigi l’argento olimpico a squadre. E in più i risultati individuali: l’argento di Vanessa Ferrari al corpo libero a Tokyo, e a Parigi il capolavoro alla trave, con l’oro di Alice D’Amato e il bronzo di Manila Esposito.

Finora gli ori nella ginnastica artistica alle Olimpiadi li avevano portati soltanto gli uomini: Igor Cassina alla sbarra ad Atene 2004, Yuri Chechi agli anelli ad Atlanta 1996, Franco Menichelli al corpo libero a Tokyo 1964, e poi andiamo addirittura a prima della guerra.

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Chi è 

Alice D’Amato ha 21 anni, si è trasferita dalla sua Genova al centro federale di Brescia quando ne aveva 10, dopo le elementari. A lei è andata bene: una sorella ce l’ha davvero, anzi una gemella, e insieme hanno diviso la fatica e lo smarrimento di dover crescere lontano da casa. In una stanza piena di pelouche e di nastrini, dove in principio passavano il tempo a litigare.

«Una volta abbiamo allagato la casetta dove stavamo con le bottiglie d'acqua», ha raccontato Asia. E Alice ha confessato che soltanto una volta hanno ceduto alla tentazione di prendere una il posto dell’altra. «Ci siamo scambiate a scuola per un’interrogazione. L'insegnante ha chiamato una di noi e si è alzata l'altra. Ma lo abbiamo fatto solo per gioco, per capire cosa sarebbe successo».

Ogni tanto capita che le confondano ancora, soprattutto quando sono di schiena, o mentre fanno gli esercizi a testa in giù. Ma Alice è un po’ più alta di Asia, più dolce, e «ho le orecchie a sventola», mentre «lei è bella». Crescendo, sono diventate una cosa sola. E quando una si fa male l’altra deve andare in pedana da sola, ed è tutto più difficile. «Se vince una, è come se vincesse anche l’altra». Vanessa Ferrari e Asia D’Amato si sono infortunate gravemente prima dei Giochi, e a Parigi ci sono andate ma in tribuna: a fare il tifo per le loro sorelle, vere o acquisite poco importa.

Come in convento

Sembrano leggere, minuscole, ma dentro sono di acciaio. Non riuscirebbero a reggere quella vita, quei ritmi, quella disciplina altrimenti. Tutte insieme hanno vissuto anche il lockdown, lontano dai genitori e dalle altre famiglie. La palestra ricorda una caserma, qualche volta un convento.

Ore e ore a provare all’infinito ogni singolo movimento di un esercizio, gesti ripetuti fino allo sfinimento, la ricerca ostinata della perfezione. Una breve pausa per pranzo, e la sera sui libri a studiare. I massaggi, la cena, e tutte a dormire. Vivono insieme sei giorni su sette, più di undici mesi l’anno, dieci giorni di vacanze in tutto. Dietro c’è la fatica, il talento, l’ostinazione. Bellezza, eleganza, armonia, ma anche forza, tendini e muscoli d’acciaio. E dunque una preparazione fisica ossessiva, e il peso di non dover mai lasciare cadere la concentrazione nelle otto-nove ore di esercizio quotidiano.

Nel 2017 fu girata una web serie sulla dura vita delle atlete verso l’Olimpiade. La intitolarono senza troppa fantasia: «Fate, Road to Tokyo 2020». Ci ostiniamo a chiamarle fate, e non pensiamo mai che a un certo punto la polverina magica finisce. E se ti volti, dietro c’è un’altra bambina pronta a prendere il tuo posto.

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