È il segreto meglio custodito della cerimonia, pare lo conoscano tre persone in tutto. Il nome e il volto di chi accende il braciere viene svelato solo in diretta, all’ultimo momento. La prima nel 1928 toccò a un dipendente della compagnia del gas di Amsterdam, poi la decisione è diventata sempre più simbolica, a volte politica
La prima volta, ai Giochi del 1928, toccò senza troppe cerimonie a un dipendente della compagnia del gas di Amsterdam accendere il fuoco: probabilmente non sapeva che stava replicando l’antica Grecia, dove per tutto il tempo dell’Olimpiade ardeva un braciere in onore di Era, la sposa di Zeus.
L’idea che quel fuoco fosse proprio quello di Olimpia si deve alla propaganda nazista, che per i Giochi di Berlino del 1936 volle che la simbologia fosse assolutamente perfetta. E così a Parigi, che pure ha già ospitato le Olimpiadi nel 1900 e nel 1924, quel fuoco sacro arderà per la prima volta. Per tutta la durata della cerimonia inaugurale gli spettatori presenti e i telespettatori (se ne stimano un miliardo e mezzo in tutto il mondo) aspetteranno il momento in cui apparirà l’ultimo tedoforo, il volto scelto dalla Francia per i Giochi nel mondo in fiamme.
L’acqua
Forse non è un caso che la fiaccola abbia compiuto la maggior parte del suo percorso sul mare – dal Pireo a Marsiglia e poi da Brest a Tahiti – e che a Parigi la cerimonia si svolga sulla Senna: l’acqua spegne il fuoco e, anche se sappiamo che non smorzerà le guerre, per due settimane proveremo a crederci. E sarà l’ultimo tedoforo a dover accendere le nostre speranze.
La politica, la razza, la diversità, le minoranze, la riparazione di torti secolari: negli anni la figura dell’ultimo portatore della fiaccola ha assunto un ruolo simbolico molto forte. A partire dal 1980. Nei Giochi passati alla storia per il boicottaggio ordinato da Jimmy Carter come reazione all’invasione sovietica in Afghanistan, gli organizzatori scelsero il più americano dei loro atleti: ad accendere il braciere fu Sergej Belov, stella della pallacanestro, il primo ad essere inserito nel Naismith Memorial Basketball Hall of Fame pur avendo un passaporto diverso da quello degli USA.
I boicottaggi
Quattro anni dopo, a Los Angeles, con i paesi dell’Est che risposero boicottando a loro volta (del blocco sovietico si presentò in California soltanto la Romania), gli americani fecero fare l’ultimo tratto della fiaccola a un uomo a cui avrebbero affidato la loro vita: dopo aver vinto l’oro nel decathlon ai Giochi di Roma nel 1960, Rafer Johnson aveva fatto qualche particina a Hollywood recitando anche con Elvis Presley e poi fu una delle guardie del corpo di Robert Kennedy, che si era candidato alla Casa Bianca. Nella notte tra il 5 e il 6 giugno 1968, quando Bob fu ucciso all'hotel Ambassador di Los Angeles da Sirhan Sirhan, Johnson non riuscì a fermarlo ma fu lui a disarmarlo. Dopo aver acceso il braciere a Los Angeles, recitò ancora in due film di Tarzan e in un deludente 007 con Timothy Dalton.
Ci sono designazioni pensate per restituire quello che la storia ha tolto. Nel 1988, a Seul, la Corea del Sud scelse Sohn Kee-chung, 76 anni: ne aveva 24 alle Olimpiadi di Berlino, quando vinse l’oro nella maratona con il nome nipponico Son Kitei, perché all'epoca la Corea era una colonia giapponese. Durante la premiazione Sohn non sollevò mai la testa e nelle interviste continuava a ripetere che lui era coreano. Il CIO però non ha mai assegnato alla Corea quello che, di fatto, è il primo oro di un suo atleta. Solo nel 2011 sul sito del CIO apparve finalmente la vera storia di Sohn Kee-chung.
L’apparizione di Cathy Freeman a Sydney, nel 2000, voleva riparare secoli di segregazione, povertà, prigionia e diritti negati per il popolo aborigeno: ma a lei essere un simbolo non bastava, e il 25 settembre 2000, correndo con una tuta che la copriva dalla testa ai piedi, portò alla sua gente la prima medaglia olimpica della storia, nei 400 metri.
Un simbolo ma del dilettantismo fu il tedoforo di Roma 1960: Giancarlo Peris, un diciannovenne di Civitavecchia che aveva vinto i campionati studenteschi di corsa campestre della provincia di Roma e che nella vita vera ha fatto il professore di italiano. Scelta in fondo non dissimile da quella di Londra 2012, in cui si divise il peso della responsabilità tra sei giovani promesse dello sport britannico più un volontario: oggi due sono medici, uno lavora per una banca di investimenti, uno ha conseguito un dottorato di ricerca in fisica delle particelle elementari e adesso insegna, una è truccatrice con una specializzazione in protesi e un’altra si è laureata in alimentazione e si destreggia tra problemi di salute. La vita se ne frega dei simboli.
Le ingiustizie e i risarcimenti
A Rio 2016 – la scelta di un paese grande che deve ancora superare il trauma del Maracanazo – l’ultimo tedoforo fu Vanderlei de Lima, che ad Atene pensava già che avrebbe vinto la maratona della leggenda, e fu allora che uno squilibrato gli si avventò contro, e l’oro lo vinse Stefano Baldini. In quel 2004 il velista Nikolaos Kaklamanakis, oro ad Atlanta, prese il posto all’ultimo momento di Kostas Kenteris: ci voleva un dio per il ritorno a casa dei Giochi, ma Kenteris si rivelò fin troppo umano. Si sottrasse a un controllo antidoping a sorpresa, e inventò la storia di un incidente in moto che risultò poi falsa: niente Giochi, basta così.
Quattro anni dopo Pechino scelse ancora un dio, quello della ginnastica: a Los Angeles 1984 Li Ning aveva vinto tutte in una volta tre medaglie d’oro, due d’argento e una di bronzo. Ventiquattro anni più tardi il regista della cerimonia inaugurale di Pechino 2008, Zhang Yimou, quello di Lanterne Rosse, lo fece camminare nel cielo: il filo non si vedeva, e quella era la Cina che volava sul mondo. Anche l’uomo Li Ning sapeva volare: ha fondato un’azienda di abbigliamento, scarpe e articoli sportivi che come logo ha il baffo della Nike al contrario, e se vi confondete non è mica colpa sua.
La storia, i soprusi, le ingiustizie. Ma il simbolo più potente rimarranno sempre la forza della vita e la fragilità della bellezza e della gioventù. A Barcellona ‘92 l’arciere paralimpico catalano Antonio Rebollo accese la torcia olimpica scoccando una freccia e ci fece tremare come il fuoco che viaggiava per l’aria finché non centrò il braciere. Quattro anni più tardi, ad Atlanta, tremammo tutti tra le mani di Muhammad Ali, e se non avete pianto vedendolo accendere il tripode, gonfio, goffo, impaurito, devastato dal Parkinson, ostinato, allora non siete umani.
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