I malinconici della cattiveria agonistica, tema di cronaca in queste giornate di narrazione olimpica, non se la prendano. Niente di personale, ma c’è un’altra brutta notizia per loro: anche la cultura della leadership non è quella che immaginano. Il binomio atleta cattivo-allenatore autoritario non è mai stato un modello, se non nella visione di chi lo sport lo interpreta attraverso le proprie categorie mentali piuttosto che con lo studio e l’applicazione della metodologia dell’allenamento.

Anche il transfert dall’ambito aziendale a quello sportivo della cosiddetta leadership transazionale (ovvero basata sul motivare attraverso premi e sanzionare tramite punizioni) non è mai stato un riferimento, non fosse altro perché non produce risultati, prima che per molte ragioni umane.

La psicologia dello sport ha infatti dimostrato che le motivazioni estrinseche (ovvero esterne rispetto all’azione da svolgere, quali sono ad esempio i premi) non hanno la forza delle intrinseche (che derivano invece dal puro piacere di eseguire il compito). Un fenomeno che si chiama “sovragiustificazione” aggiunge un ulteriore dettaglio: ricevere una ricompensa o subire una punizione indebolisce la motivazione intrinseca.

Ciò significa che quello che fai non lo fai perché ti piace, ma perché ambisci al premio o al contrario per paura di una punizione.

Le tre P

Questo tipo di leadership transazionale basato sul dare e avere ha da tempo lasciato il posto alla leadership trasformazionale detta anche gentile, che si basa su un rapporto circolare virtuoso tra leader e gruppo, il cui obiettivo è la crescita (trasformazione) reciproca. Un modello di leadership in cui le qualità e le abilità tecniche specifiche (hard skills) si devono riempire di qualità umane (soft skills): una visione olistica della persona, dell’individuo all’interno del gruppo e della prestazione come il risultato della crescita di ogni componente del team.

Si chiama anche la leadership delle tre “P” perché vuole, cerca, crea sinergia tra partecipazione, persona, performance: tre dimensioni in teoria ma una unica di fatto. Fefè De Giorgi, tecnico della nazionale di volley, ce ne ha dato un esempio in diretta, durante la partita al cardiopalma con il Giappone. Gli azzurri erano sotto di due set e l’esito negativo, che sembrava ormai certo, si è trasformato in uno straordinario successo.

Un’impresa da manuale iniziata con una rimonta spinta da una frase del tecnico, a sua volta ex atleta della nazionale anni Novanta (quella dei “fenomeni” che lanciò la pallavolo italiana nel mondo).

Cosa ha detto? Semplicemente «Prendiamoci ciò che ci spetta», pochissime parole usate come chiavi per aprire e dare potenza al vissuto individuale che diventa collettivo. Vediamo l’analisi logica della frase. «Prendiamoci» al plurale esprime empatia, siamo insieme, la responsabilità è condivisa e con noi c’è un Paese intero. L’uso del verbo prendere è un richiamo forte, attivo a ogni risorsa, vuol dire che le sorti della partita sono nelle nostre mani ma dobbiamo afferrare, tenere, portare a noi ciò che da noi è ancora distante.

E non usa “vittoria” e nemmeno “semifinale”, dice semplicemente: «Ciò che ci spetta», ovvero andiamo a realizzare quello per cui abbiamo lavorato tanto, una molla motivazionale per sentire di meritare un risultato, per collegare la fatica della preparazione con la sua messa a terra nel qui e ora.

Ed è finita così, con gli azzurri volati in semifinale sulle ali delle parole giuste e con il pubblico a respirare una boccata di ossigeno dopo giornate di parole tossiche.

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