Le persone con disabilità sono sproporzionatamente più esposte alla violenza sessuale rispetto alle altre, ma in Italia possono contare su un’assistenza post-violenza solo frammentaria e una debole percezione sociale della loro autodeterminazione sessuale e riproduttiva.

Autosufficienza e comunicazione

Se la violenza sessuale è spesso legata a rapporti di potere tra vittima e abusatore, nel caso delle persone con disabilità il rischio diventa ancora più alto perché spesso anche i loro bisogni primari dipendono da un aiuto esterno.

Secondo un’analisi dell’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), le violenze a danno di persone con disabilità avvengono spesso proprio per mano di chi si occupa della loro cura quotidiana: familiari, operatori sanitari delle strutture specializzate o insegnanti di sostegno.

«E in una situazione di caregiving, si innescano nella vittima dei sentimenti complessi, spesso contraddittori, perché a volte collegati al senso di colpa, altre volte a concrete impossibilità di difendersi non solo a livello fisico, ma anche emotivo», dice Valentina Caradonna dell’Associazione no profit Verba, che promuove le pari opportunità per le persone con disabilità.

Secondo Caradonna, ciò rende a sua volta i maltrattanti ancora più sicuri di poter agire indisturbati, «perché tanto l’abuso non viene reso pubblico». Il timore di non essere creduti o di subire ritorsioni, come l'abbandono o l'interruzione delle cure, contribuisce infatti a un’enorme cifra di sommerso: le denunce formali sono rarissime.

Quando poi si tratta di uomini, l’underreporting è ancora più accentuato. «Lì intervengono una serie di problemi legati alla concezione patriarcale del potere tra uomo e donna, che è sentita fortemente sia dalla persona con disabilità che da chi la circonda», spiega Caradonna.

Secondo numerose associazioni, a contribuire alla sottodenuncia interviene innanzitutto una grande carenza nella comunicazione, a partire dall’assenza di educazione sessuale e affettiva nelle scuole fino al vuoto statistico.

Gli ultimi dati Istat disponibili (si fermano al 2014) mostrano che le donne con limitazioni gravi che hanno subìto violenze fisiche o sessuali sono il 6,6 per cento in più rispetto alle donne non disabili. Quelle vittime di stupro, invece, addirittura il doppio (il 10 per cento contro il 4,7 per cento). Da allora le statistiche non sono state aggiornate e non esiste ancora una raccolta di dati disaggregati per disabilità sulla violenza di genere, rendendo difficile valutare l’impatto specifico.

«E questo perché? Perché nessuno pensa che una persona disabile possa rientrare in una sfera sessuale, figuriamoci subire abusi», dice Caradonna. E questo ha un impatto anche sulle stesse vittime, spesso non consapevoli dell’abuso subito, oppure del loro diritto di chiedere aiuto.

Nel momento in cui, poi, si trova il coraggio di rivolgersi alle autorità, si va incontro a un sistema non sempre ben attrezzato, materialmente a culturalmente.

L’aiuto inaccessibile

Alcune associazioni riportano che nei procedimenti giudiziari le donne con disabilità affrontano una vittimizzazione secondaria, che può portare a esiti sfavorevoli nella tutela dei loro diritti e nella gestione delle loro denunce​. Secondo Giacinto Corace, avvocato penalista specializzato nella difesa di persone con disabilità, un principale ostacolo è infatti proprio trovare qualcuno che dia credito alle accuse.

«Una volta che si è riusciti a tirar fuori la brutta esperienza subita, la difficoltà è la ricerca di un organo ufficiale di supporto, una struttura che si occupa di questo e che può indirizzare la persona a un legale che la possa seguire», aggiunge Corace, spiegando che per quanto riguarda i casi di violenza sessuali gli avvocati specializzati sono molto pochi sul territorio nazionale.

Gli enti che dovrebbero assistere i sopravvissuti alla violenza nella ricerca di aiuto legale, ma anche psicologico, come i centri antiviolenza (Cav) e le case rifugio, hanno infatti barriere fisico-sensoriali e di formazione significative.

Il progetto Chiama chiAMA dell’onlus Mondo Donna è stata la prima iniziativa italiana che ha cercato di rendere più omnicomprensivi i servizi di prevenzione e accoglienza antiviolenza. «Era qualcosa che a noi saltava all'occhio, cioè il fatto che donne con disabilità non si rivolgessero ai nostri sportelli. Quindi ci siamo dette: c'è qualcosa che riguarda l'accessibilità», dice Loretta Michelini, presidentessa di Mondo Donna. Il progetto però è solo uno dei pochi casi di intervento inclusivo e specializzato.

In molte regioni italiane, infatti, le vittime con disabilità non trovano un’adeguata accoglienza poiché mancano fondi, infrastrutture e competenze specifiche per affrontare queste discriminazioni multiple.

Secondo un'indagine della rete D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), circa l'84 per cento dei Cav è accessibile a persone con disabilità motoria, ma le misure per altre forme di disabilità sono ancora carenti: solo un Cav su quattro (23 per cento) offre servizi di mediazione per non udenti, mentre il 16 per cento dispone di mediazione per donne con disabilità visiva.

Manca un progetto nazionale

Ma oltre all’accessibilità fisica, a parte alcune circoscritte​ esperienze virtuose, al momento non c’è un progetto di formazione nazionale del personale nei Cav. Il rapporto del 2024 inviato dall’Italia al Grevio (Gruppo di esperti per il monitoraggio della Convenzione di Istanbul) indica che solo il 30,9 per cento dei centri antiviolenza ha intrapreso percorsi di formazione per la gestione delle disabilità. Niente di simile risulta nelle case rifugio.

A causa dello scarso finanziamento, il 96 per cento delle case rifugio presenti in Italia adotta criteri di esclusione delle persone che il centro può accogliere. Tra le più frequentemente escluse ci sono proprio le donne con disagio psichiatrico o non autosufficienti, che non vengono accolte in oltre il 95 per cento di queste strutture, ma anche quelle con dipendenze (94,8 per cento) e le vittime di tratta (45,1 per cento): a dirlo sono i dati del ministero per le Pari opportunità.

«Le case rifugio non hanno personale attrezzato, non hanno figure sanitarie che possono somministrare eventuali terapie farmacologiche, non hanno spazi consoni», spiega Michelini. «Non c'è ovviamente a priori una volontà di esclusione. I centri e le case rifugio non vengono finanziati e tutto parte da qui», aggiunge.

© Riproduzione riservata