Al di là di salami piccanti e ‘nduja, nel crotonese si mangia la sardella, un gioiello culinario sconosciuto ai più con una consistenza simile al noto salumese calabrese, ma a base di pesce e non di carne
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Parlare di cibo è forse uno dei metodi più semplici per rompere il ghiaccio appena si conosce qualcuno. Basta sapere solamente la regione di origine della persona che si ha di fronte, per sentirsi legittimati nel porre domande scherzose a seconda della provenienza: ai romagnoli quante piadine mangiano al giorno, agli abruzzesi qualche aneddoto sugli arrosticini, ai siciliani sulla corretta pronuncia di arancino o arancina, o ai calabresi su quale sia la loro soglia di tolleranza al piccante e quindi alla ‘nduja, la pietanza più rappresentativa del territorio.
A questo genere di sollecitazioni, i crotonesi rispondono però allargando spesso le spalle, disorientati ma orgogliosi, «perché sulla costa ionica si mangia la sardella» dice Gabriele, 30enne crotonese doc e da sempre promotore, nel suo piccolo, di questa pietanza sconosciuta anche a tanti calabresi.
Il problema del novellame
Per i profani, la sardella è una specie di ‘nduja, dunque una sorta di crema spalmabile e piccante, ma col pesce al posto della carne, diffusa soprattutto nella parte orientale della Calabria. Si tratta di una ricetta che secondo le credenze popolari risale al periodo della Roma imperiale, quando era molto diffuso il garum, una salsa a base di interiora di vari prodotti ittici, messi sotto sale e poi a macerare al sole.
Com’è però ovvio, ci non poche differenze tra il garum e la sardella, dalla preparazione fino agli ingredienti utilizzati che, in quest’ultimo caso, ha come elemento principale il bianchetto, cioè il novellame di sardine e acciughe, minuscoli pesciolini appena usciti dallo stato larvale, da mettere sotto sale e a cui aggiungere un bel po’ di peperoncino locale. Ed è proprio in questo frangente che la tradizione va a scontrarsi con la sostenibilità ambientale.
Oltre a essere pesciolini in attesa di crescere e diventare adulti, il novellame è alla base di gran parte della catena alimentare marittima, ed è per questo che negli ultimi anni la pesca del bianchetto – diffusa in tutta Italia, dalla Liguria fino alla Sicilia – è stata fortemente regolamentata con una serie di decreti ministeriali e direttive europee.
Quella più stringente risale al Regolamento mediterraneo che l’Unione europea ha varato nel 2006, dov’è previsto il divieto di pesca del novellame di pesce azzurro al di sotto degli 11 centimetri, dunque già abbastanza grandi, o quantomeno rispetto a quanto vuole la tradizione della sardella, con pesciolini generalmente lunghi non più di 4-5 centimetri.
Per preservare la ricetta, nota con una certa enfasi anche come “il caviale dei poveri”, la soluzione adottata è arrivata direttamente dalla Cina, col novellame sostituito dal pesce ghiaccio, assai più economico – i prezzi arrivano fino a un massimo di cinque euro al chilo – e proveniente dalle acque salmastre dello Yunnan.
A livello visivo cambia poco tra la sardella tradizionale e quella per così dire “cinese”, trattandosi di due prodotti ittici esteticamente molto simili, coi pesciolini asiatici sottili e chiari al limite del trasparente, lunghi al massimo sei centimetri e con occhi neri ben in risalto, similissimi dunque alle piccole sardine pescabili nel Mediterraneo.
La differenza però si percepisce immediatamente quando si utilizzano olfatto e gusto, con una fragranza più anonima e un sapore alquanto sciapo nel caso della sardella fatta col pesce ghiaccio, dove il peperoncino copre spesso tutto il resto.
Un problema che diventa evidente quando si passa dal prodotto casalingo a quello per la distribuzione organizzata, con il rischio di far passare per calabrese una pietanza il cui ingrediente principale proviene però a più di 8mila chilometri di distanza, e con un pesce d’acqua dolce anziché salata.
L’alternativa
Le Bontà di Calabria, piccola impresa con sede a Cirò Marina, è l’unica realtà locale che non utilizza materie prime importate dalla Cina, «per una questione di tradizione ma soprattutto di gusto» spiega Carmine Scrivano, responsabile commerciale di questa azienda che ha nella sardella il proprio punto di forza. Insieme all’amico di infanzia e socio Sergio Lucchetta, Scrivano ha trascorso parte della propria gioventù a Crucoli, borgo crotonese di neanche 3mila abitanti che rivendica da sempre la paternità della sardella.
«Erano gli anni Novanta e ancora ricordo quando il padre di Sergio ci cercava in giro per tutto il paese: a casa era arrivato il pesce e quindi bisognava tornare per preparare la sardella, ed era una festa collettiva», dice Scrivano. «Nostalgici dell’entusiasmo di una volta, io e Sergio ci siamo ritrovati dieci anni fa, con l’idea di creare questa piccola attività facendo la sardella crucolese come una volta, senza ovviamente violare le varie normative».
Niente novellame e nemmeno pesce ghiaccio, ma l’utilizzo di sarde italiane più cresciute, o comunque sopra gli 11 centimetri previsti dalla direttiva europea, che vengono messe sotto sale per 14 mesi. Dopodiché si passa allo sfilettamento, prima di inserire il pesce in un cutter che lo trita fino a trasformarlo in paté, a cui poi viene aggiunto olio di girasole, sale e una dose più o meno abbondante di peperoncino calabrese.
Il risultato è un prodotto che a livello visivo perde un po’ di quell’impatto che provoca la sardella tradizionale, con tanti pesciolini rossastri sdraiati su una fetta di pane, ognuno dalla consistenza ben percepibile durante la masticazione. Il sapore resta invece più o meno inalterato, intenso e dolciastro, assai diverso rispetto alla sardella fatta con il pesce ghiaccio, che però continua a rimanere l’alternativa al bianchetto più utilizzata.
La sagra
Nonostante i divieti, a ogni primavera si susseguono notizie su centinaia di quintali di novellame di pesce azzurro sequestrati dalla Guardia di finanza a decine di pescatori in tutta Italia, anche a dispetto del fermo biologico che porta ai dipendenti delle aziende ittiche un’indennità che arriva fino a 50 euro al giorno; una cifra reputata comunque bassa se messa a paragone coi possibili proventi della vendita del bianchetto, il cui prezzo può superare i 60 euro al chilo.
Nel testo del regolamento europeo del 2006 è comunque prevista una deroga per la pesca di piccole quote di novellame destinate al consumo umano, a patto che queste siano catturate a determinate condizioni.
Malgrado tutto, Crucoli resta ancora oggi la città della sardella, una pietanza che si trova ovunque, dal ristorante con le recensioni migliori su Tripadvisor fino alla bottega che non compare nemmeno su Google Maps.
In questo borgo medievale che si affaccia sul mar Ionio, «l’evento cardine della città resta la sagra della sardella, che va avanti ogni anno dal 1970 ed è probabilmente una delle sagre più antiche in Calabria» racconta Innocenza Greco, assessora al turismo e allo spettacolo del Comune di Crucoli, che spiega come l’identità del borgo sia legata indissolubilmente a questa ricetta.
«Anche se costoso e difficile da reperire», continua, «il bianchetto con cui fare la sardella resta per molti crucolesi qualcosa di imprescindibile. Da queste parti non credo ci sia una dispensa senza neanche un barattolo di sardella, da mangiare in ogni modo, dentro pasta o insieme alle uova» «O meglio ancora», scriveva Mario Soldati in uno dei suoi reportage (Vino al vino, Bompiani) «usando una sfoglia di cipolla dopo l’altra come un grosso cucchiaio che si immerge nella sardella».
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola.
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