La docuserie Netflix «Vendetta» racconta le storie parallele dell’ex giudice Silvana Maguto e del fondatore di Telejato Pino Maniaci, che critica l’accostamento con «la signora più potente di Palermo». La lettera di Maniaci che critica l’articolo scritto da Domani e la risposta dell’autore, Attilio Bolzoni
In un articolo di Domani pubblicato il 5 ottobre il giornalista Attilio Bolzoni ha parlato della docuserie Netflix Vendetta: guerra nell’antimafia, che ha come protagonisti Pino Maniaci e Silvana Saguto. «Il telepredicatore di Telejato, assolto dall’accusa di estorsione, e l’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, condannata a otto anni e sei mesi e radiata dalla magistratura, sono nemici che parlano la stessa lingua», li ha definiti Bolzoni.
Pino Maniaci, editore e direttore di Telejato, ha risposto all’articolo di Domani criticando l’accostamento con l’ex giudice Saguto e accusando Bolzoni di essere scivolato «nella prospettiva ideata da chi ha confezionato il prodotto mediatico». Di seguito pubblichiamo la lettera di Maniaci e la risposta di Bolzoni, presente anche sull’edizione del nostro quotidiano uscita in edicola sabato 9 ottobre.
La lettera di Maniaci
Ho letto l’articolo di Attilio Bolzoni pubblicato il 5 ottobre su Domani (Maniaci e Saguto, due eccessi nella Sicilia dopo le stragi), dedicato alla fiction Vendetta, trasmessa da Netflix. Mi permetto di fare qualche osservazione. Sappiamo entrambi, io per aver praticato il mestiere di giornalista da dilettante, con pochi mezzi e con molte buone intenzioni, Bolzoni per averlo fatto da professionista serio e puntuale, che quando si vuole dimostrare una tesi basta individuare, nel contesto che caratterizza un evento, tutti gli elementi utili a confermare la bontà della tesi e a scartare quelli che potrebbero contraddirla, e così la polpetta è confezionata. Sappiamo anche quanto poco corretto ma efficace sia questo metodo.
Quello che ha cercato di dimostrare Bolzoni non sfugge a questa chiave di lettura e non rende giustizia alla vera immagine di Pino Maniaci o a quella di Silvana Saguto, poiché confeziona il giudizio sulle persone basandosi su quello che mostra la fiction e non sulla realtà. È vero che la troupe che ha confezionato il prodotto è rimasta intere giornate negli studi di Telejato e, per quel che si nota, anche a casa della Saguto, girando ore e ore di filmati, ma alla fine, nel montaggio, sono state selezionate quelle scene utili a dimostrare l’assunto di partenza, ovvero lo scontro tra due personalità «complementari», secondo le regole che rendono appetibile e commerciabile un prodotto di questo tipo. Spiace che Bolzoni sia caduto nella prospettiva ideata da chi ha confezionato il prodotto mediatico.
Nella realtà non c’è alcuna complementarità tra Maniaci e la Saguto: uno è il povero responsabile di una scalcagnata emittente, forse la più piccola del mondo, che trasmette da un paese, Partinico, dove è nata la prima radio libera nel 1970, per iniziativa di Danilo Dolci, a due passi da Terrasini, dove sette anni dopo Peppino Impastato diffondeva il messaggio della sua controinformazione, rispetto all’informazione omogeneizzata del giornalismo italiano. Due esempi che mi sono stati sempre di riferimento nei miei vent’anni di attività. L’altra è quella che Caselli definiva «la signora più potente di Palermo», corteggiata e osannata come la vera «icona» dell’antimafia da tutti quelli che dell’antimafia hanno fatto un’immagine e un «sistema» di personale garanzia esistenziale.
Non credo di avere nulla da spartire con questa signora spregiudicata, che per sua ammissione ha dato il via a una stagione indiscriminata di sequestri mettendo in ginocchio il poco che rimaneva della fragile economia siciliana. Non so quale specularità possa esserci e non accetto questi confronti, poiché la mia correttezza, con tutte le sue possibili deviazioni, è ben poca cosa rispetto al gigantesco giro d’affari gestito dalla Saguto e dalla sua banda di amministratori giudiziari e amici scritti nell’agendina. Io sono stato assolto dall’accusa di ricatto e di estorsione, si noti, per 366 euro; lei si è permessa di ricattare durante il processo tutti i suoi colleghi, esibendo la famosa agendina, senza che nessuno le contestasse queste larvate minacce.
Mi pare che si voglia mettere assieme il diavolo e l’acqua santa, sulla base di immagini parziali, presupponendo che queste siano espressione di tutta la realtà. In verità oltre quelle immagini c’è ben altro: c’è un quotidiano lavoro che mi consente appena di pagare le spese di gestione dell’emittente, ci sono una serie di rapporti umani e sociali con i telespettatori, c’è soprattutto la collaborazione con ragazzi che dall’emittente sono passati offrendo il proprio contributo e acquisendo esperienze. La narrazione di tutta questa vicenda non è quella che è stata mandata in onda nella fiction, ma quella che Salvo Vitale ha descritto nel suo recente libro In nome dell’antimafia, del quale mi permetto di consigliare la lettura al «collega» Bolzoni: è indiscutibile la sua competenza di storico dei fenomeni mafiosi, un po’ meno quella di psicologo, come tenta di fare nell’articolo.
La risposta di Attilio Bolzoni
Caro Maniaci, il mio articolo non voleva sostenere a tutti i costi alcuna tesi su di lei né sull’ex giudice Saguto. E non credo di aver subìto un condizionamento dalla visione della docuserie su Netflix: sono troppo avanti con gli anni per scivolare «nella prospettiva ideata da chi ha confezionato il prodotto mediatico».
Mi sono limitato a esprimere il mio pensiero su quelli che ho definito gli «eccessi» di una certa antimafia e, come lei sa, non è la prima volta che ne scrivo. Spero di averlo fatto senza «eccessi». Sono d’accordo con lei su un punto: la docuserie ha praticamente ignorato la grande questione dei beni confiscati. Non ho ancora letto il libro di Salvo Vitale: lo farò con piacere al più presto, certo di trovare fra quelle pagine riflessioni e spunti interessanti per il mio lavoro.
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