Una rete femminista forte e coesa permette a chi viene marginalizzato un maggiore accesso ai diritti e alla giustizia. Lo dimostra la letteratura scientifica sull’impatto dei movimenti per i diritti delle donne. E finanziare queste forme di attivismo corrobora e sostiene il cambiamento sociale.

L’Italia, la terza maggiore economia dell’Unione europea, è ancora molto indietro sull’abbattimento delle disuguaglianze, occupando solo il quattordicesimo posto per tasso di parità di genere tra tutti e 27 i paesi membri. Eppure, gli interventi istituzionali continuano a non supportare adeguatamente le organizzazioni femministe, che qui operano con fondi limitati e sono costrette a focalizzarsi sull’emergenza della violenza di genere, a scapito di interventi sulle radici socioculturali di queste stesse discriminazioni.

Secondo un’indagine condotta da Semia, il primo e unico fondo femminista italiano, il 61 per cento di tutte le organizzazioni femministe nel paese dichiara che il maggiore ostacolo ai propri progetti sono le disponibilità economiche insufficienti. Usufruendo di quote sociali e tesseramento, un’organizzazione su quattro sopravvive tramite l’autofinanziamento, mentre solo il 14 per cento di tutti gli enti mappati riceve donazioni da fondazioni italiane e il 7 per cento dipende unicamente da bandi pubblici.

Missioni principali

«La destinazione di risorse particolarmente scarse alle organizzazioni femministe è un dato di fatto ed è frutto di una chiara volontà politica. Come lo è non finanziare la prevenzione», dice Sabrina Drago, attivista e fondatrice del progetto Violetta, che offre laboratori educativi di educazione sessuale e di prevenzione della violenza di genere nelle scuole ed è tra i beneficiari del bando erogativo 2024 promosso da Semia.

Anche nel testo della legge di bilancio 2025, che ha stanziato per quest’anno 46 milioni di euro per il contrasto alla violenza di genere, non risulta alcuna risorsa specificamente allocata per programmi di prevenzione, «che però sono un elemento essenziale nella lotta alla violenza», dice Eleonora Del Vecchio, ricercatrice e consulente di gender equality e membro del consiglio di amministrazione di Semia.

Negli ultimi dieci anni le risorse stanziate per la lotta alla violenza di genere sono aumentate del 156 per cento, ma il numero di vittime rimane praticamente uguale. «E questo perché i soldi vengono investiti solo per i casi in cui l’abuso è già avvenuto e non nella parte di tutela preventiva ed educazione», spiega Del Vecchio.

Anche però tra le stesse organizzazioni femministe l’area di intervento più frequente (per il 76 per cento di tutte organizzazioni) è quella al contrasto alla violenza di genere. «Ma dobbiamo necessariamente considerare che da un lato la violenza in Italia è dilagante (c’è una media di una donna uccisa dal proprio partner o ex partner ogni tre giorni) e dall’altro lato le uniche realtà che ricevono contributi statali, e quindi maggiore visibilità e sostenibilità, sono i centri antiviolenza», dice Del Vecchio, «che comunque rimangono gravemente sottofinanziati rispetto al bisogno».

Mentre la disponibilità limitata di fondi porta quindi le organizzazioni a concentrarsi su interventi post-violenza, le attività mirate a contrastare le cause profonde della discriminazione sistemica, come le barriere all’accesso al lavoro, l’impari distribuzione dell’educazione alla leadership o dei lavori di cura, rimangono marginali.

«C’è una pericolosa inconsapevolezza di quanto la cultura e l’indipendenza finanziaria sia importante per prevenire la violenza economica di genere. Pensiamo al fatto che il 37 per cento delle donne italiane non ha un conto corrente personale», dice Giulia Grignani, consulente, educatrice finanziaria e Ceo di Kermasofia, progetto beneficiario dei fondi di Semia e uno dei pochi enti italiani di promozione dell’empowerment economico femminile tramite educazione finanziaria.

Se una possibile spiegazione della limitata presenza di organizzazioni della società civile che si occupano di questioni legate al lavoro femminile è che è un ruolo tradizionalmente svolto dai sindacati, secondo Grignani un deterrente è costituito anche dalla prevalenza maschile nella consulenza finanziaria (solo il 22 per cento dei consulenti è donna).

«E poi oltre alla rappresentatività, c’è una totale miopia politica locale nel sostenere l’educazione femminile all’uso degli strumenti economici, che invece dovrebbe essere strutturata», dice Grignani. «Noi come start-up abbiamo avuto la fortuna di aver ricevuto un finanziamento da privati stranieri. Senza di loro forse non saremmo neanche nate».

Oscurantismo e speranze

Per garantire l’efficacia e la sostenibilità delle organizzazioni che si occupano di discriminazioni non si dovrebbe infatti prescindere da un sostegno economico delle istituzioni nazionali, ma anche da un riconoscimento l’importanza dell’operato femminista.

«Stiamo vivendo visibilmente un momento di crisi in questo senso, ma un progetto politico così importante adesso non può dipendere neanche dalla presenza o no di finanziamento statale», dice Sabrina Drago, «anzi, io voglio sperare che una fase di tale oscurantismo faccia al contrario scatenare la resistenza e la consapevolezza di meritare per il nostro futuro qualcosa di diverso».

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