C’è chi si riunisce con i suoi amici per l’Iftar (il pasto con cui al tramonto si interrompe il digiuno), chi vive in provincia e spera che prima o poi possa avere una moschea dove recarsi e chi ha nostalgia della cultura d’origine, dove tutto è tarato intorno a questo evento religioso e spirituale (lontano da discriminazioni)
«Ci sono italiani che non ne sanno niente, sono molto curiosi e fanno domande. Perché non mangi? Non puoi bere? Non puoi fumare? E fare l’amore? Mi piace spiegare il mio punto di vista», racconta Mohammed Alì, un ragazzo di 30 anni di origine tunisine che vive a Roma.
Dal 1° marzo ogni giorno si riunisce nel tardo pomeriggio con i suoi amici per l’Iftar, il pasto con cui al tramonto si interrompe la giornata di digiuno, durante il mese di Ramadan. A casa di uno o dell’altro si organizzano per creare un clima il più vicino possibile a quello che si respira nella cultura araba. «Ramadan a Roma non ha lo stesso sapore che in Tunisia. Sembra un mese come un altro, però per noi, anche se non siamo molto praticanti, Ramadan è sacro», dice Alì. «Lo scorso anno una mia amica italiana ha fatto l’Iftar con noi, è cristiana e non digiunava, ma ha deciso di cenare insieme a noi».
Quando non vogliono o non riescono a cucinare, Alì e i suoi vanno a mangiare altrove. «Al Pigneto è capitato che andassimo in moschea per spezzare il digiuno e pregare. Offrono acqua, datteri, yogurt da bere e poi un pasto composto da solito di riso e carne», racconta. «La scorsa settimana siamo stati all’Iftar organizzato a Centocelle. C’era anche il cous cous e abbiamo pregato all’aria aperta. A tavola c’erano anche italiani, è stato molto bello».
Alì studia cinema all’università di Roma Tre e al momento non lavora. «Quando durante Ramadan facevo il cameriere era più faticoso. Due anni fa avevo un datore di lavoro che non mi faceva neanche fare pausa per spezzare il digiuno. Il sole tramontava intorno alle 20, un’ora quasi di punta per un ristorante. Capitava che insieme ad altri colleghi musulmani digiunavamo anche 2-3 ore in più», ricorda Alì con rabbia.
In provincia
Arezo Rashidi è una ragazza afgana di 20 anni. Mentre conclude i suoi studi lavora anche come mediatrice culturale. Vive in un piccolo paesino in provincia di Reggio Calabria. A differenza di Alì e di altri giovani come lei che vivono in grandi città, nel suo paesino di provincia non c’è una moschea. «Manca una struttura che ti apra il cuore e ti concili con la tua spiritualità e religione», racconta. Ma insieme alla piccola comunità musulmana locale hanno trovato un’altra soluzione, anche se non definitiva. «In paese vive un imam di origine siriane. Abbiamo deciso di prendere una casa, mettere dei tappeti e preghiamo insieme la sera», racconta Rashidi.
«Qui in Italia Ramadan è molto diverso rispetto all’Afghanistan. Dipende molto dal contesto in cui si vive, se una persona è inserita in una comunità musulmana o meno», aggiunge.
Durante l’Iftar quando riesce mangia i piatti tipici della cultura culinaria afghana. «Ma in Italia non si trovano tutti gli ingredienti. Nel mio paesino è ancora più complicato. Qui per esempio abbiamo una macelleria che vende solo pollo halal (abbattuto secondo il rito islamico, ndr), ma non altri tipi di carne. Quindi in caso bisogna andare altrove», racconta.
Rashidi ha un forte senso della fede. Ride quando deve spiegare ai ragazzi della sua scuola che «se non beviamo per parecchie ore comunque continuiamo a vivere», ma le piacerebbe che il giorno dell’Eid al Fitr sia di festa. È la giornata che segna la fine del mese di digiuno e nei paesi islamici è un giorno festivo e le scuole rimangono chiuse per tre giorni. In Italia, invece, è un giorno come un altro. A Pioltello i dirigenti avevano deciso di chiudere la scuola attirando in fretta e furia pesanti critiche da parte dei partiti di maggioranza.
Influencer
«Fai prima a intervistare chi non digiuna secondo me, non riesco a trovare nessuno», dice Mohammed ridendo e un po’ sorpreso. Nella sua ristretta cerchia di amici provenienti o con origini dal Nord Africa, in pochi praticano il digiuno. La comunità musulmana in Italia conta circa 2.5 milioni di persone, poco più del 4 per cento del totale, e ognuno ha il suo rapporto personale con la religione.
Della comunità fanno parte anche migliaia di giovani italiani con background migratorio. Decine di loro raccontano la loro fede attraverso i social. E così ci sono influencer che fanno vedere ai loro follower i pasti proteici da assumere durante il sohuur (l’ultimo pasto prima dell’alba che sancisce l’inizio del digiuno), c’è chi spiega come evitare la disidratazione durante la giornata suggerendo mix di sali minerali fai da te. Chi propone ricette culinarie tipiche del mondo arabo e chi spiega ai follower le motivazioni alla base del digiuno o altri precetti religiosi.
C’è chi porta soluzioni a scenari imprevedibili: «Cosa accade se involontariamente si beve un bicchiere d’acqua durante la giornata?», oppure: «Se hai la febbre come fai?». Altri influencer forniscono consigli sulla forma fisica a seconda del proprio obiettivo. Se vuoi bruciare grassi allora ti dicono di allenarti a bassi ritmi un’ora prima dell’Iftar, se si vuole mantenere la forma fisica o aumentare la massa muscolare l’orario giusto per allenarsi è due o tre ore dopo il pasto principale.
«Mi capita di vedere qualche video», dice Rashidi. «Le generazioni di oggi sono incollate al telefono, quindi è positivo pubblicare questo tipo di contenuti se realizzati in maniera chiara e seria. Ci sono tante persone ignoranti che provano odio contro i musulmani. Video come questi possono aiutare», aggiunge.
Secondo il rapporto “Essere musulmani in Ue” redatto dall’Agenzia dell’Unione europea per i Diritti fondamentali e pubblicato il 24 ottobre 2024, il 34 per cento dei musulmani intervistati in Italia ha dichiarato di aver subito discriminazioni razziali nella vita quotidiana nei cinque anni precedenti l’indagine. Le donne che indossano capi religiosi sono le più colpite. Il 45 per cento delle intervistate hanno detto di aver subito discriminazioni, percentuale che sale al 58 per cento per le donne comprese tra i 16 e i 24 anni.
Oltre il pregiudizio
«Fin da quando sono piccolo c’è sempre stato molto pregiudizio e penso che ci sarà per ancora tanto tempo. Lo avverti in mille casi, arriva sempre la persona che non sa nulla, viene a sapere che digiuni e lo vede come chissà quale atto di sacrificio. La cosa peggiore sono le domande banali, la maggior parte non ti chiede il motivo o il significato del digiuno», dice Kamal.
Ha 25 anni, studia e lavora a Milano come fotomodello ma la sua famiglia vive nelle Marche. Nato in Italia da genitori marocchini, digiuna durante il mese di Ramadan fin da quando era al liceo. Anche lui ha la stessa certezza degli altri: «Nei paesi arabi la vita è organizzata in base alla fede, tutto rallenta, cambiano gli orari, si vive di più la sera. Qui non sempre i ragazzi di seconda generazione digiunano, quindi manca anche il ritrovarsi», racconta Kamal.
Prova a superare la nostalgia insieme agli amici. «Quando sono a Milano cerco di trovare il posticino che ti prepara tutto per spezzare il digiuno. Per ricreare un po’ quell'immaginario, quel momento di raccolta». Un po’ come ci provano anche Ali e Rashidi.
© Riproduzione riservata