Ci fu un tempo, quasi quarant’anni fa, in cui il boss chiamato Sandokan pensò che fosse giunta l’ora di riunire ciò che la riforma agraria aveva spezzettato e di mettersi a capo non soltanto di un clan mafioso ma anche di un latifondo.

Voleva la Balzana, borgo rurale che era stato il gioiello di famiglia della Cirio. Ma anche la piccola azienda Selvalunga, che sulle pareti della sala mungitura portava i colori e i tratti di un suo affresco, rigorosamente firmato.

Tra un’asta fallimentare e una trattativa, tra una guerra di camorra (era il 1988, e bisognava sistemare la successione ad Antonio Bardellino, sparito tra Santo Domingo e il Brasile) e una complicata latitanza, ecco che si chiudeva il primo affare: la tenuta Ferrandella, azienda agricola modernizzata nel 1959 dalla famiglia napoletana Auriemma-Ruller, affidata alle cure del fattore Michele Di Foggia, che avrebbe voluto comprarla e che invece fu convinto a rinunciare.

«Mio padre incontrò quelle persone e tornò a casa bianco in volto, pallido e spaventato» raccontò poi il figlio. Michele, nel frattempo, era morto d’infarto. Di paura, suggerì qualcuno che ne aveva raccolto le ultime confidenze.

Francesco Schiavone era ricercato per l’omicidio di Bardellino e del nipote Paride Salzillo, all’acquisto formalmente partecipò quasi tutta la sua famiglia: un miliardo e mezzo di lire il prezzo concordato, un miliardo pagato con decine di micro assegni.

Il saldo non ci fu mai perché, nel frattempo, la tenuta era stata sequestrata: sessanta ettari in agro di Santa Maria la Fossa, cuore dei Mazzoni, terreno fertilissimo al confine con la Balzana. La complicata storia di quella confisca è raccontata negli atti giudiziari e nelle sentenze.

Meriterebbe un capitolo a parte ma ciò che è accaduto dopo (e anche durante) le procedure di sequestro e di successiva acquisizione al patrimonio pubblico è ancora oggi pietra dello scandalo. Perché un terzo di quell’azienda è sparito. Frazionato, venduto a terzi, ceduto ancora, oggi nella disponibilità di persone che non dovrebbero e potrebbero averne la proprietà ma che pure l’hanno acquisita con regolare atto notarile. Come è accaduto? Un mistero.

Un affare di camorra

Ferrandella, durante l’emergenza rifiuti, era diventata (con quella di Chiaiano) la discarica peggiore della Campania: mal gestita e fortemente inquinante. Soprattutto, è stata, e forse lo è ancora, un affare di camorra. Dicevamo che misura sessanta ettari: quaranta a suo tempo affidati al ministero della Difesa, che doveva farne un poligono; venti al consorzio Agrorinasce, che avrebbe dovuto realizzare una fattoria didattica.

I danni provocati dallo sversamento incontrollato di rifiuti bloccarono i progetti, poi il consorzio – causa inquinamento del terreno – è stato costretto a ripiegare su un impianto di biogas; il ministero ha rinunciato alla sua parte cedendola allo stesso Agrorinasce. Ma i conti non tornano.

La somma delle particelle catastali non fa sessanta ettari ma quaranta. Manca un terzo della proprietà, un terreno grande trenta volte lo stadio Maradona sottratto alla confisca attraverso frazionamenti che si sono succeduti nel tempo.

Compravendite avvenute nei giorni immediatamente successivi al primo sequestro (nel dicembre del 1989) e anche in tempi molto più recenti, nel 2019. Se quel terreno confiscato non fosse destinatario di un nuovo progetto di riqualificazione non se ne sarebbe accorto nessuno.

Caseifici e terreni fantasma

Che qualcosa non andasse, però, in quella confisca è storia vecchia anche se non contenuta nelle banche dati utilizzate dagli investigatori. I fatti: nel 1997 spuntano a Caserta, frazione Sala, ad Arzano e in Emilia-Romagna dei punti vendita di mozzarella con l’insegna “Ferrandella”, un brand che è il marchio di fabbrica di Francesco Schiavone, a quel tempo latitante.

A Caserta è gestito da uno sconosciuto ragioniere; i titolari di quello di Arzano raccontano di essere stati costretti a comprare i prodotti da persone che si erano qualificate come «amici di Casale». Il custode dell’azienda, non ancora confiscata in via definitiva (il passato in giudicato è del 2001), nega di aver concesso l’uso del marchio, di possedere bufale, di aver dato in fitto porzioni del fondo agricolo. Ma alcune particelle risultano cedute a quattro nordafricani. Neppure il tempo di fare qualche domanda ed ecco che le insegne spariscono. Nessuno indaga.

In tempi più recenti è il figlio del capoclan, Nicola Schiavone, una condanna all’ergastolo e una poco soddisfacente collaborazione con la giustizia, a parlare di nuovo di “Ferrandella”.

Lo fa il 14 e il 28 aprile del 2021, durante il processo all’ex sottosegretario e leader di Forza Italia in Campania, Nicola Cosentino. Racconta, sbagliando però date e successione degli eventi, della gestione dell’emergenza rifiuti, della trattativa con il commissariato di governo gestita da Antonio Scialdone (il “socio giovane” di Nicola Ferraro, ex consigliere regionale dell’Udeur condannato per concorso esterno) e dei lavori (costruzione delle piazzole di stoccaggio e trasporto) gestiti direttamente da Michele Zagaria.

Poi parla dei dissapori con Zagaria e dei terreni: «Noi avevamo degli accordi vecchi sulle cose confiscate, quando c’era qualche appalto lo gestivamo noi, cioè quelle persone che erano state confiscate; quella era una terra che era della mia famiglia, lui diceva no, quello è un settore che mi sto occupando io». Ma alla fine aveva fatto cassa, piazzando qualche ditta amica e dividendo gli utili. Una cosa, però sarebbe interessante sapere e nessuno gliel’ha mai chiesto: a chi appartenevano i caseifici “Ferrandella”? E di chi sono i terreni fantasma?

© Riproduzione riservata