È rimasta la passione a tenere in piedi la scuola in Italia. Non certo gli investimenti del governo in istruzione, che sfiorano il 4 per cento del Pil mentre la media dei Paesi industrializzati è del 4,9 per cento. E sicuramente non sono gli stipendi a incentivare i docenti all’impegno in classe.

Come si capisce dall’ultimo report dell’Ocse, Education at a Glance, mentre nei 36 Stati membri dell’organizzazione, i compensi degli insegnanti, dal 2015 al 2023, sono cresciuti in media del 4-5 per cento in termini reali, cioè in base alla variazione che hanno avuto i prezzi dei beni di consumo, «in Italia è come se il ministro dell’istruzione e del Merito Giuseppe Valditara chiedesse ai professori di ridursi lo stipendio», ironizza Raffaele Miglietta, rappresentante nazionale di Flc Cgil. Si riferisce alle risorse stanziate in legge di bilancio per il rinnovo contrattuale dei docenti che consentiranno un aumento della paga mensile del 5,78 per cento, in media circa 137 euro lordi in più al mese per ogni insegnante, «peccato che tenendo conto dell’inflazione, in pratica si chiede al personale dei rinunciare a più del 10 per cento degli aumenti che sarebbero necessari a mantenere lo stesso potere d’acquisto».

Stipendi bassi per sempre

Questo succede anche perché, «i contratti nel nostro Paese vengono rinnovati sempre in ritardo e senza risorse adeguate al costo della vita», spiega ancora Miglietta. Proprio come dimostra il fatto che, mentre l’anno è quasi al termine, devono ancora iniziare le trattative per il rinnovo del contratto scuola che si riferisce al triennio 2022-24.

«Che l’Italia sia fanalino di coda per gli stipendi degli insegnanti purtroppo non è una novità. Il nostro Paese è da anni al di sotto della media Ocse, con valori che oscillano dal 25 al 15 per cento in meno in base al grado di scuola e agli anni di carriera», riporta il sindacalista, ricordando che le retribuzioni di chi lavora nel comparto dell’istruzione sono le più basse di tutta la pubblica amministrazione: «Il divario è ancora più ampio se si confrontano gli stipendi dei docenti con quelli degli altri laureati nel resto della Pa».

Un insegnante della scuola primaria in Italia guadagna meno di 34 mila euro lordi l’anno appena entra in classe, poco più di 40 mila dopo 15 anni di esperienza. Se lavorasse in Francia ne guadagnerebbe più di 36 mila all’inizio, poco più di 43 mila dopo 15 anni. In Spagna il suo stipendio lordo annuo sarebbe di 46 mila euro a inizio carriera, di 53 mila alla fine. In Germania di quasi 70 mila euro all’inizio, di più di 84 mila dopo 15 anni di professione, per fare alcuni esempi.

E il gap non decresce neppure quando si sposta il focus sui docenti delle scuole secondarie inferiori e superiori: un professore delle medie in Italia guadagna circa 36.400 euro l’anno, in Francia quasi 40 mila appena inizia a insegnare. In Germania un professore delle superiori dopo 15 anni di esperienza ha un compenso annuo di oltre 95 mila euro, nel nostro paese di meno della metà: 45.400 euro.

Storie di sottopagati

A testimoniare che chi sceglie di svolgere la professione di insegnante in Italia non lo fa per il guadagno, non ci sono solo i numeri del report Education at a Glance ma anche i racconti di chi vive la scuola tutti i giorni. «Insegno da 6 anni alla primaria, guadagno circa 1.500 euro al mese», racconta Giulia Piacentini che vive a Roma: «Riesco a mantenermi in una città diversa da quella in cui sono cresciuta grazie al fatto che divido le spese con mio marito», spiega evidenziando anche come stipendi così bassi creino un danno alla qualità della didattica.

«All’inizio della carriera è l’entusiasmo a guidarci ma dopo 20 anni di professione il fatto che una grande parte del lavoro che facciamo resti silente porta tanti di noi ad allentare la presa. Perché non ci sono solo le ore in aula a impegnarci». Ma le lezioni da preparare, i compiti da correggere, le riunioni tra docenti, gli incontri con le famiglie, «i tentativi di comprendere i bisogni di ogni studente e di seguirlo in base alle sue specificità. Perché gli allievi non sono fogli bianchi su cui imprimere informazioni, ma personalità complesse da conoscere», spiega Fabiola Lanciani, professoressa da 30 anni, che insegna in un istituto professionale nelle Marche: «Lo stipendio che percepiamo non è adeguato all’impegno che serve a scuola», conclude, convinta che tra le ragioni per così bassi salari ci sia il fatto che la maggior parte degli insegnanti sono donne, abituate a farsi carico della cura senza chiedere retribuzione.

«Un altro problema sono gli incarichi aggiuntivi», spiega Michela Guerra, insegnante specializzata sul sostegno a Bologna: «Mi riferisco ai collaboratori del dirigente scolastico, ai coordinatori dei vari dipartimenti, ai docenti tutor, incarichi necessari proprio come le ore di lezione ma che vengono pagati pochissimo». Come chiarisce, infatti, Annamaria Palmieri, oggi dirigente scolastica, da anni docente militante convinta dell’importanza della scuola pubblica per l’esistenza della democrazia, «dagli anni duemila, da quando ha preso forma la scuola dell’autonomia, i docenti che svolgono questi incarichi sono fondamentali per permettere agli istituti di andare avanti. Ma la loro retribuzione reale, al di là dei proclami, è molto bassa. Parliamo di 850 euro lordi l’anno per le funzioni strumentali, ad esempio. Questo crea una profonda lacerazione nella categoria, tra chi lavora più del dovuto perché crede nel valore della professione e chi no visto che non ne vale la pena economicamente. Insegnare, però, non è una missione, bensì un mestiere. La qualità del lavoro passa dal rispetto per la figura professionale».

Che gli stipendi bassi, le possibilità di carriera quasi nulle, lo scarso incremento di retribuzione negli anni, il fatto che le ore previste dal contratto di lavoro siano inferiori all’impegno necessario contribuiscono a frantumare.

Cristallizzare le disuguaglianze

«Quando lo stato non è presente con investimenti sufficienti nell’istruzione, quando non supporta gli insegnanti, significa che sta abbandonando le giovani generazioni», puntualizza, infatti, la sociologa Francesca Coin, che si occupa di lavoro e disuguaglianze sociali: «In netto contrasto con la retorica paternalistica secondo cui sarebbero i giovani a non fare abbastanza per costruirsi un futuro, sono gli scarsi investimenti in istruzione che cristallizzano le disuguaglianze di partenza, indeboliscono la scuola come strumento di mobilità sociale. E così sbriciolano la fiducia nelle istituzioni».

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