Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Insomma, la lettura più ragionevole della decisione di Mannino di rilasciare quella sorta di intervista-confessione “fantasma” è che egli abbia sfruttato l’interesse del giornalista a raccogliere in esclusiva quelle confidenze per fare trapelare all’esterno, fra l’altro, la circostanza che egli era vittima anche di insidiosi avvertimenti, e che cosa si pretendeva da lui.

Che poi era un modo intelligente per tenere desta l’attenzione sul suo caso, accreditando di sé l’immagine di politico che non si era piegato al ricatto mafioso, ma al contempo (per) non essere lasciato solo a dover fronteggiare quelle pressioni, facendo chiaramente intendere (almeno a chi doveva intenderlo) quale fosse la posta in palio: o tenere duro, o piegarsi.

Si può persino intravedere, in una simile prospettazione, anche un appello accorato a che la Politica si assumesse le proprie responsabilità, e non fossero i singoli a dover fare quella scelta. Ma deve convenirsi che in ogni caso le esternazioni di Mannino, cui dare pubblico risalto per interposta persona e senza scoprirsi in modo esplicito, contrastano con l’ipotesi che lo prefigura quale ispiratore di trarne sotterranee volte ad avviare un dialogo con Cosa nostra.

È certo infatti che un’eventuale trattativa tra lo stato e Cosa nostra, per avere chance di successo, doveva svilupparsi sottotraccia e nel più assoluto riserbo, senza dare pubblicità ai termini della questione e alla posta in palio. E se stiamo alle risultanze acquisite, non si può dire che Calogero Mannino avesse fatto di tutto per occultare o mettere la sordina alle minacce ricevute e alla condizione di ricatto in cui lui stesso versava. Né può trarsi argomento di segno contrario dal riserbo con cui si svolsero — o si sarebbero svolti — gli incontri con Subranni, vertenti sul problema della sicurezza personale del ministro (o dell’onorevole) Mannino. Ed invero, alla luce delle risultanze emerse sul tenore dei rapporti tra Manino e Guazzelli, tra Mannino e Subranni e tra Subranni e Guazzelli non può escludersi in effetti che in epoca anteriore e prossima all’uccisione del maresciallo Guazzelli – e in un contesto di crescente emergenza legata alla sequela di attentati e omicidi – questi abbia incontrato Mannino per parlare delle problematiche relative alla sua sicurezza, come già era avvenuto in precedenza; e che di tali argomenti a sua volta Subranni abbia parlato con Guazzelli, sempre poco prima della sua morte, sollecitandone un abboccamento con Mannino: ciò che sarebbe avvenuto anche il giorno prima che venisse ucciso, quando Guazzelli rientrò in Sicilia reduce dalla trasferta romana [...].

Ma, al netto del riguardo e della sollecitudine usata (da Tavormina come da Subranni, come dal povero Guazzelli) anche in ragione di pregressi rapporti di conoscenza personale, o per ingraziarsi i favori di un potente uomo politico, non vi sarebbe nulla di disdicevole, o di inappropriato rispetto ai doveri istituzionali nel fatto che la sicurezza del Ministro fosse oggetto di particolare attenzione da parte dell’Arma, sia nella persona di uno dei sottufficiali più impegnati ed esperti di indagini antimafia nel territorio di provenienza del Ministro, sia nella persona degli alti Ufficiali che ricoprivano ruoli apicali negli organismi ed apparati di intelligence a livello nazionale [...].

Il Ros aveva particolari competenze e conoscenze per porre in essere una tutela “preventiva” dell’incolumità del ministro, attivando la propria rete di fonti info-investigative, ma anche predisponendo all’occorrenza sevizi particolari di protezione (in occasione di spostamenti della personalità a rischio o di particolari situazioni di pericolo) o rafforzando quelli ordinari (come sarebbe avvenuto proprio nell’estate del ‘92, secondo quanto il generale Tavormina aveva riferito all’udienza de 19.07.2000, nell’ambito del processo a carico di Calogero Mannino per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa — v. supra — salvo non serbarne memoria quando ha deposto, quasi 15 anni dopo, nel primo grado del presente giudizio).

Lo stesso poteva dirsi della Dia, almeno stando alle competenze previste dalla legge istitutiva, che ne faceva addirittura l’organo verso il quale avrebbero dovuto confluire tutte le informazioni raccolte su vicende e indagini in materia di criminalità mafiose da parte degli altri organismi investigativi. E peraltro tra i suoi primi compiti operativi, come ben rammenta il generale Tavormina, vi fu proprio la gestione di alcuni nuovi pentiti del calibro di Mutolo, Messina e, da settembre del ‘92, anche Marchese Giuseppe (anche se la sua collaborazione con la giustizia verrà formalizzata solo a novembre).

Mentre il fatto che della sua tutela fosse incaricata, come servizio di scorta, la polizia di stato nulla toglieva alla possibilità che altri organismi di polizia o di intelligence venissero mobilitati per la tutela di un’alta carica dello stato (Mannino all’epoca era ancora ministro in carica), disponendo dei mezzi e delle conoscenze e delle competenze necessarie per sventare attentati.

Così pure i (successivi) contatti tra Mannino e Subranni e tra Mannino e Contrada si sarebbero svolti con modalità sì riservate, ma rientravano nell’ambito delle rispettive competenze e non avevano in sé nulla di clandestino o occulto. Né il riserbo doveroso su quegli incontri, proprio per la delicatezza del loro oggetto e delle eventuali informazioni e valutazioni che i partecipanti si fossero scambiati, poteva di per sé far pensare a interessi reconditi e inconfessabili che esulassero da finalità istituzionali.

“Sollecitazioni” anche alla DIA e al SISDE

Insomma, il giudice di prime cure, a parere di questa Corte, ha omesso di considerare il dato più significativo che emerge dalle triangolazioni di incontri sopra ricordate [...], precedute da altre triangolazioni, avvenute queste a cavallo dell’omicidio Lima, di cui aveva fatto parte il povero maresciallo Guazzelli e pure vertenti sul problema della sicurezza del ministro. E il dato più significativo è che il Mannino non rivolse soltanto ai carabinieri, rectius, al generale Subranni quale Comandante del Ros, la sollecitazione a intervenire in suo favore, contro il pericolo da cui si sentiva sovrastato; ma analoga sollecitazione rivolse al capo della Dia, nella persona del Generale Tavormina, e al nr. 2 o nr. 3 del Sisde, dott. Bruno Contrada.

In pratica, egli si rivolse ai vertici dei maggiori apparati investigativi e di intelligence dell’epoca; o almeno a quelli cui più facilmente poteva accedere sfruttando le proprie relazioni e i propri apparati di conoscenza anche personali. Rapporti che ovviamente gli offrivano opportunità di accesso e di ascolto — e di essere ascoltato — che restavano preclusi a un comune cittadino o anche ad un uomo politico che non disponesse delle sue entrature e relazioni.

E non si può certo dire che avesse bussato alle porte sbagliate, per non avere, gli interlocutori prescelti, alcuna competenza a provvedere sulla protezione delle personalità a rischio.

Va ribadito infatti che essi erano a capo, o ai vertici, di organismi investigativi di rilievo nazionale, altamente specializzati in attività info-investigative; ed era di loro specifica competenza Io svolgimento di indagini in materia di criminalità organizzata e mirate, tra l’altro, anche a sventare o prevenire il pericolo di eventuali attentati, o a individuarne e arrestarne i responsabili, o a catturare o favorire la cattura di pericolosi latitanti, e persino infiltrare le organizzazioni mafiose: tutti obbiettivi che potevano tornare utili a risolvere il problema della sicurezza personale del ministro Mannino, o almeno a rispondere al suo bisogno di protezione molto più efficacemente dei tradizionali servizi di scorta o di vigilanza fissa o dinamica.

Ma, al contempo, erano obbiettivi assolutamente fuori della portata del personale e degli organi preposti istituzionalmente ai servizi ordinari di tutela e scorta delle personalità a rischio.

E l’altro dato da considerare è che, […] attraverso l’intervento dei Carabinieri, egli si aspettava di ottenere risultati non diversi da quelli per i quali aveva contestualmente sollecitato l’intervento della Dia e Sisde. Né si può dire che Mannino si sentisse autorizzato a lasciarsi andare con il generale Subranni a sollecitazioni o inviti e richieste che non avrebbe potuto rivolgere agli altri qualificati interlocutori sul tema della sua protezione personale.

Sorvolando sulle ammissioni da parte di Contrada circa l’esistenza di una frequentazione e di incontri avvenuti in quel periodo anche per motivi squisitamente personali (ne dà conto la sentenza d’appello del processo stralcio, pur non avendo avuto ingresso in questa sede i verbali delle dichiarazioni rese dal Contrada e dallo stesso Mannino), è certo che il generale Tavormina, come lui stesso ha ammesso, aveva con il Mannino un rapporto di conoscenza e frequentazione e persino di (dichiarata) amicizia personale assai più profondo e risalente (si erano conosciuti nel 1982), considerato che Subranni avrebbe fatto la conoscenza di Mannino solo nel 1991, e che era stato proprio il generale Tavormina a presentarli l’uno all’altro.

Non v’è dunque ragione di escludere, e deve anzi ritenersi più che probabile, che la sollecitazione che Mannino trasmise ai carabinieri del Ros come pure alla Dia e al Sisde fu nel senso di attivare i rispettivi canali info-investigativi e di impiegare le proprie risorse per sviluppare le indagini mirate ad individuare la fonte delle minacce e neutralizzare il pericolo concreto di eventuali attentati.

Del resto, la nota a firma proprio del Generale Subranni del 19 giugno 1992, che allertava il comando generale dell’Arma perché si facesse carico di informarne le autorità centrali (e quindi a cascata tutti gli organi di polizia e le forze dell’ordine) e intraprendere le iniziative necessarie contro il pericolo di imminenti attentati alle cinque personalità ivi indicate, tra cui gli on. Calogero Mannino e Salvo Andò, sembra proprio rispecchiare il tenore più probabile di quei colloqui. Alcuni passaggi, in particolare, che assemblano le informazioni attinte da fonti fiduciarie con le indicazioni degli analisti dell’Arma sulla matrice delle minacce e sulle loro probabili finalità, soprattutto nella parte in cui si riferiscono al rischio di attentati ai due esponenti politici menzionati s’incrociano perfettamente con le preoccupazioni espresse dall’on. Mannino al Padellaro e con l’analisi della situazione in atto e dei recenti fatti di sangue in Sicilia dallo stesso uomo politico rassegnata al giornalista. Naturalmente, nella logica propria dei teoremi accusatori che non si curino di cimentarsi sul non facile terreno della verifica probatoria, si può sempre sostenere che quella nitidamente sintetizzata nel documento citato era la posizione “ufficiale” del Ros e del suo comandante (oltre che dell’Arma tutta).

Ma non esclude che sotto sotto il generale Subranni, in combutta con l’on. Mannino, brigasse in tutt’altra direzione. Ma di questo passo, non vi sarebbe ragione di escludere dalla trama occulta di un disegno volto ad avviare un negoziato con Cosa nostra anche le figure apicali della Dia e del Sisde che furono parimenti investite del problema loro segnalato dal Mannino.

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