Nel 1984 il corridore veneto fu il primo azzurro a imporsi nella corsa che stava diventando una classica del calendario. Le sue scarpe sono state donate al muso della federazione internazionale. Il Tg1 diede la notizia come terza dopo le trattative per il sequestro dell’Achille Lauro e un servizio sul Papa. L’anno dopo fece il bis
Quelle scarpe Orlando Pizzolato le ha donate al Mowa, il museo di World Athletics: Sono rosse e sono Nike. «Me le procurò Massimo Magnani, un amico, un compagno di lavoro a Ferrara dove ci allenavamo con Giampaolo Lenzi. Sono un numero più grande, gli dissi quando me le allungò. Ma quelle c’erano e quelle ho usato quel giorno di quaranta anni fa».
Era il 28 ottobre 1984 e la notizia che un italiano aveva vinto la maratona di New York risultò la terza al Tg1 dopo le trattative per il sequestro dell’Achille Lauro e un servizio sul Papa.
Orlando, che oggi ha 66 anni, sta per andare a New York per la 41esima volta: da lungo tempo, una trentina d’anni, è diventato punto di riferimento per gli appassionati della corsa, compilatore delle tabelle di allenamento, guida e guru per un plotone che può variare, in numero, dai sessanta agli ottanta, riusciti a strappare l’iscrizione e un numero da appiccicarsi addosso. Costo, 550 dollari. Moltiplicare per 52.000, l’armata che si schiera sul ponte da Verrazzano, significa giungere alla cifra di 28 milioni e 600.000 dollari. La creatura di quel buonanima di Fred Lebow è diventata una gigantesca calamita che attira, irresistibile.
Le sue parole
Pizzolato, vicentino di Thiene, ha una memoria lucida. «Quella mattina, andando verso la partenza, ci siamo accorti che la giornata era strana. Sin dal mattino presto un caldo innaturale, una cappa di umidità. Loro la chiamano estate indiana. Ero con Gianni Demadonna e guardando l’elenco dei premi, scritto su un ciclostilato, ci scambiavamo le nostre ambizioni. Gianni puntava a entrare tra i primi e alla fine sarebbe finito quarto, io puntavo a un posto tra i primi dieci per mettermi in tasca tre, quattromila dollari. Tutti pensavano, anche noi, che Rod Dixon, uno dei grandi neozelandesi, avrebbe fatto il bis. Un anno prima non l’avevo visto neanche da lontano: ventisettesimo».
Il gruppetto dei favoriti davanti, da subito. Orlando è dietro, prudente. Ma quando il distacco comincia a farsi netto, decide di aumentare il ritmo: «Ho trovato la collaborazione del messicano Gomez, ci siamo fatti sotto e, quando intorno al 20° km li abbiamo raggiunti, abbiamo capito che erano tutti molto fiacchi. Così siamo andati via e al ponte di Queensboro Gomez ha cominciato a boccheggiare e così, quando è iniziata la First Avenue, che non finisce mai, mi sono trovato da solo.
Dal bus dei fotografi Franco Fava mi ha detto che avevo 1’10” di vantaggio e ho cominciato a fare i miei calcoli. Potevo perdere cinque secondi a chilometro e vincere. Non pensavo più a un posto tra i primi dieci, tra i primi cinque. Avevo la chance per quei 26.000 dollari e per quella Mercedes. A casa avevo una 127». Il Maratoneta, sulle stesse strade di un magnifico thriller di John Schlesinger, con un febbrile Dustin Hoffman e un diabolico Laurence Olivier.
Anche Orlando sente il brivido della paura, ma la parola “brivido” può far sorridere con quel caldo che incalza: 74° Fahrenheit fanno 26° Celsius e il 90% di umidità fa il resto.
«Ho cominciato a dialogare con me stesso, a stendere un piano: a ogni miglio c’è il rifornimento, rallenti, bevi, cammini per un po’ e riprendi a correre». C’è una bella foto bianco e nero: Orlando si deterge il sudore e cammina: sullo sfondo i grattacieli di Manhattan. «Qualcuno mi ha detto che un inglese, Dave Murphy, si stava facendo sotto. Non mi sono fatto prendere dal panico, non ho cambiato la condotta. Credo che Murphy sia arrivato a 15”, qualcuno dice a 9”. Ma quando sono entrato a Central Park e mi sono voltato non l’ho visto, e ho vinto con 43 secondi».
Orlando non era neanche un outsider. Non era proprio previsto. E così, il giorno dopo, per quella sua vittoria sulla fatica, un giornale titolò “Orlando as Dorando”. Ma con un finale lieto rispetto al dramma del povero Pietri. Quando sbarcò a Fiumicino lo aspettava una folla di giornalisti.
Un anno dopo, con molti gradi in meno Orlando concesse il bis con molti minuti in meno, quattro, piegando il gibutiano Ahmed Salah, lo stesso che nel 1988 un altro vicentino, Gelindo Bordin, avrebbe acchiappato nel finale della maratona olimpica di Seul, costringendo l’africano a strabuzzare gli occhi: «Ma questo da dove arriva?».
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