La violenza maschile sulle donne è legata alla rappresentazione del ruolo di uomo e donna. Dagli anni Novanta esistono gruppi maschili che sensibilizzano sulla decostruzione del ruolo maschile nella società. Lo psicologo Matteo Lancini: «Tanti anni fa abbiamo iniziato a interrogarci sulle difficoltà nella costruzione di una nuova identità femminile. Tardivamente ci rendiamo conto che c’è un enorme cambiamento e un’enorme fragilità nei maschi»
È passato più di un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin. Il caso, che ha coinvolto due studenti universitari, ha segnato una svolta nel modo in cui il dibattito pubblico affronta il tema della violenza sulle donne.
Dibattito che resta purtroppo attuale: secondo i dati riferiti dal ministero dell’Interno, nel 2024 sono state uccise 96 donne, di cui 82 in contesti familiari o affettivi. Si sente dire sempre più spesso che la violenza sulle donne non è solo un problema delle donne, ma lo è soprattutto degli uomini.
Anche grazie alle parole di Elena Cecchettin, si è iniziato a mettere parzialmente in discussione l’idea che i femminicidi avvengano perché i singoli uomini sono dei mostri, con il progressivo riconoscimento che è un problema che riguarda tutte e (soprattutto) tutti. A questo, dovrebbe seguire un’analisi del perché gli uomini siano violenti.
È quello che dagli anni Novanta provano a fare alcuni gruppi di uomini, che prendono spunto dai gruppi di autocoscienza dei collettivi femministi, insistendo sulla decostruzione del ruolo maschile nella società. Tra questi c’è il gruppo di Roma, di cui fa parte Stefano Ciccone, che è anche tra i fondatori della rete Maschile plurale.
«Ci sono molte connessioni tra diverse forme di violenza e diverse rappresentazioni del rapporto tra uomo e donna», spiega Ciccone. «La violenza nelle relazioni famigliari è molto legata, per esempio, a un modello gerarchico di rapporto tra i sessi».
Entra infatti in campo, secondo Ciccone, la questione dei rapporti di potere all’interno di gran parte delle coppie e anche il tipo di relazione. Storicamente, «abbiamo l’idea che l’uomo abbia una funzione di guida e di protezione, quasi educativa, della donna. Quindi l’idea che le donne siano emotive, incapaci di scegliere da sé e perciò bisognose di un uomo che le controlla giustifica nella nostra società una reazione violenta verso chi non sta in quella posizione di controllo e subalternità».
Fragilità
Leggendo in modo critico la figura dell’uomo nella nostra cultura, risulta evidente una condizione di difficoltà legata a questi rapporti di controllo. «C’è un’incapacità degli uomini nel fare i conti con la propria vulnerabilità», sostiene ancora Ciccone, «siamo educati a bastare a noi stessi, a credere in una nostra indipendenza».
Nel momento in cui si rompe il rapporto di controllo e di potere e finisce la relazione «entra in crisi questa presunzione di autosufficienza. Un “abbandono” ci mette di fronte a situazione di impotenza, in cui non sono io artefice della mia condizione, dipendo dalla scelta dell’altra persona. Quella donna rompe la mia aspettativa di disponibilità femminile. Tutti e tutte soffriamo quando veniamo lasciati, ma per gli uomini entra in crisi una rappresentazione illusoria della propria identità».
La vulnerabilità, o fragilità, è anche la chiave di lettura che utilizza Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta e presidente della fondazione Minotauro. Secondo Lancini, i casi di femminicidio che riguardano le generazioni più giovani sono da attribuire anche a una fragilità diffusa dei giovani, e in conseguenza di una fragilità degli adulti: «Abbiamo iniziato a interrogarci sul cambiamento e sulle difficoltà nella costruzione di una nuova identità femminile tanti anni fa. Un po’ più tardivamente ci stiamo invece preoccupando del fatto che c’è un enorme cambiamento e un’enorme fragilità nei maschi».
Nelle nuove generazioni è presente, per Lancini, un vuoto identitario, soprattutto nei maschi, «che, quando porta alla disperazione, porta a distruggere sé stessi e gli altri. C’è una disperazione che, in mancanza di parola, porta alla distruzione» e c’è anche un blocco dell’espressione delle emozioni perché considerate fastidiose dagli adulti.
Le emozioni
La mancanza di parola, di traduzione non violenta di quello che ci avviene dentro, è centrale, anche rispetto alla cultura maschile nelle varie generazioni. Gli uomini fanno spesso fatica a esprimere, o anche a riconoscere, ciò che sentono o provano. «Il problema è che non siamo educati a riconoscere le emozioni, anzi siamo educati a rimuoverle, a non legittimarle, perché parlandone diamo un senso di debolezza e di vulnerabilità», sostiene Stefano Ciccone. «Ci sono una serie di emozioni che consideriamo elementi che incrinano la nostra autorevolezza. Le uniche legittimate sono rabbia, assertività, competitività».
Un uomo è così portato spesso a tradurre tutte le dinamiche emotive nella modalità socialmente legittimata, impedendo in molti casi una comunicazione tra uomini e togliendo spazi di parola. Ciccone racconta un caso esemplare in questo senso. Lavorando nelle scuole, gli è capitato infatti di incontrare un caso di lutto famigliare che coinvolgeva un ragazzo e una ragazza dello stesso istituto. Le amiche della ragazza le stavano vicine ascoltandola e parlandole, mentre gli amici del ragazzo cercavano di fargli fare altro e distrarlo.
Come agire
Non ci sono, per questo problema, soluzioni univoche o certe. Secondo Matteo Lancini, è necessario curare e rappresentare non solo la creazione del rapporto di coppia, ma bisogna lavorare sulla manutenzione della fine di questo rapporto, per dargli anche senso.
Secondo Stefano Ciccone, è importante riconoscere che l’educazione non passa solo dalla famiglia, ma anche dai contesti che viviamo e dalle forme di rappresentazione che vediamo. È quindi necessario proporre ai ragazzi esempi alternativi di maschile che non siano prescrittivi, ma aprano a una maggiore libertà, che rendano «visibili regole invisibili» e rendano evidenti come il modello attuale porti anche a molti svantaggi per i maschi stessi.
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