La radiologa Rossi (nome di fantasia, ndr) dice che può bastare poco per aiutare un paziente in tensione: «Il sorriso a volte è il primo strumento che abbiamo per far sentire la gente accudita. Ma non è sempre facile», dice.

Qualche settimana fa, racconta la dottoressa, un paziente di 28 anni che doveva sottoporsi a una tac sembrava «molto scontroso e sbrigativo» alle domande del medico.

Rossi racconta che il ragazzo ha minacciato di percosse un infermiere. La dottoressa ha dovuto portalo via con la forza e chiudersi con lui nel suo ufficio. Lì l’uomo ha cominciato a calmarsi, mentre l’infermiere è stato portato al pronto soccorso.

«Ho parlato con questo ragazzo, che era evidentemente esasperato da mesi di dubbi clinici, esami, attese, oltre che dalla spossatezza. Mi ha raccontato che per la malattia aveva anche perso il lavoro.

La sua salute aveva quindi avuto ripercussioni talmente grosse sulla sua vita che in quel momento anche solo aspettare per fare una tac l’ha fatto scoppiare», racconta.

L’infermiere, invece, oltre all’aggressione fisica ha vissuto per settimane con la paura di uscire di casa e incontrare di nuovo il ragazzo. «Questi episodi hanno dietro un malcontento da parte di pazienti e operatori che si sente nell’aria. La gente non è folle», dice Rossi, secondo cui la mancanza di personale e di strumenti sta creando frustrazione tra i malati che non possono permettersi cure in cliniche private.

Le aggressioni nei confronti del personale socio-sanitario e medico si inseriscono in un contesto di tensione dato da problematiche strutturali dell’intero sistema ospedaliero pubblico. E tra una mancata risposta da parte delle istituzioni e l’insoddisfazione dei pazienti, i medici e gli infermieri sono diventati una categoria di vittime di violenza in crescita.

I numeri

Il rischio di comportamenti aggressivi nelle strutture sanitarie, siano esse ospedaliere o territoriali, è già di per sé alto. La pandemia da Covid-19, però, ha esacerbato queste violenze a causa della paura e della disinformazione sulla diffusione del virus, oltre che del sovraffollamento delle strutture, riportano gli esperti. Queste condizioni hanno così alimentato un potenziale di aggressività da parte di chi è in cura, dei propri familiari e persino tra gli stessi dipendenti del sistema ospedaliero.

Nel 2022, le aggressioni accertate al personale medico e sanitario sono state 2.243 su tutto il territorio nazionale, con un aumento del 14 per cento rispetto all’anno precedente. Nel 2023, secondo i dati raccolti dall’Osservatorio nazionale sulla sicurezza, le aggressioni segnalate sono state oltre 16mila, con circa 18mila operatori sanitari coinvolti.

Tra i reparti più colpiti ci sono psichiatria e i settori di emergenza o urgenza. Tra le vittime, la stragrande maggioranza (l’80 per cento nel 2023) sono donne. Durante l’estate, con l’aumento delle temperature e un personale più scarso, le violenze hanno raggiunto i livelli più alti mai registrati nell’ultimo decennio, secondo gli infermieri di Nursing up. Solo ad agosto ci sono stati 34 episodi di maltrattamento, fisico e psicologico, ai danni di operatori sanitari.

Il sottofinanziamento

Alla pressione costante sui tempi di risposta e ai livelli di responsabilità molto alti a cui sono sottoposti gli operatori nel tempo si è aggiunta la carenza di personale e il sottofinanziamento del settore sanitario.

Nel 2023 l’Italia si è collocata al 16esimo posto tra i 27 paesi europei dell’area Ocse per spesa sanitaria pubblica pro-capite, con il 6,2 per cento del Pil (la media è del 6,9 per cento): in questa speciale classifica, siamo ultimi tra i paesi del G7.

Anche l’incremento della spesa sanitaria di 7,6 miliardi per il 2024 sembra sia stato parzialmente illusorio, secondo quanto denunciato da alcune associazioni scientifiche, poiché dovuto al rinvio dei costi dei rinnovi contrattuali e non a nuovi fondi stanziati.

La mancanza di risorse stimola il rischio di aggressività sia perché infermieri e medici vengono visti come responsabili della riduzione delle prestazioni, e della loro qualità, sia perché il carico di lavoro degli operatori aumenta, generando stanchezza e tensione, denunciano i sindacati. Pierino Di Silverio, segretario dell’Anaao Assomed, ha dichiarato che nemmeno i tre miliardi dedicati al Sistema sanitario nazionale (Ssn) aggiunti nell’ultima legge di Bilancio sono abbastanza per placare l’escalation di violenza in corso.

I fondi non bastano né a creare nuovi posti di lavoro, potenziando ad esempio i servizi di psichiatria, né ad aumentare i posti letto per malati acuti e cronici, spiega Di Silverio: «Vanno aumentati gli organici: per avere più tempo per la comunicazione con i parenti, più tempo per la cura dei pazienti, meno attese nei Pronto soccorso. Noi siamo stremati: servono misure urgenti subito», aggiunge.

Un problema non segnalato

Nonostante l’impegno di alcune organizzazioni nel denunciare le aggressioni, spesso i professionisti vittime di un attacco si trovano privi di supporto e progressivamente isolati. Tra i dati più preoccupanti che evidenziano i sindacati ci sono proprio quelli sulle segnalazioni: solo il 31 per cento dei sanitari che subisce violenza denuncia l’aggressore.

I motivi sono vari, secondo i sindacati. Molte vittime evitano di rivolgersi alle autorità a causa dell’impatto emotivo dell’evento, altri perché temono le spese e i tempi della giustizia, altri ancora di incorrere in ulteriori minacce. In molti casi, gli operatori non sono informati sulle normative esistenti, né sulle procedure, e spesso a disincentivare la formazione circa le segnalazioni sono le stesse strutture ospedaliere.

«Il problema è che gli ospedali, che adesso si chiamano aziende sanitarie, dal punto di vista organizzativo funzionano in modo oramai manageriale, non tanto sanitario», spiega Mara Pavan, infermiera e presidentessa dell’Associazione professioni sanitarie italiane legali e forensi (Apsilef). Ma anche denunciare una violenza influisce sulla produttività dell’azienda.

Ai sensi della legge numero 24 del 2017, infatti, ogni ospedale ha l’obbligo di monitorare e indicare all’Osservatorio nazionale delle buone pratiche tutto quello che succede nell’azienda e di renderlo pubblico. Non sempre, però, sembra conveniente per un’azienda sanitaria segnalare un caso di maltrattamento.

«Se un paziente che deve scegliere dove fare un intervento vedesse dei numeri alti su violenze in una certa struttura, poi ci andrebbe per farsi curare? È come se l’azienda dicesse alla vittima: “Se vuoi, denuncia, ma se lo fai non ti aiutiamo”. E i dipendenti sono lasciati a sé stessi», aggiunge Pavan.

Il diritto a cure e sicurezza

Nell’ultima settimana in due ospedali a Foggia ci sono stati episodi di violenza nei confronti del personale locale. Alcuni medici e infermieri si sono barricati in una stanza per difendersi dall’assalto dei familiari di una paziente deceduta durante un intervento chirurgico. Tre infermieri sono stati invece aggrediti fisicamente da un paziente al pronto soccorso.

Le associazioni di categoria, tra cui Anaao Assomed e Cimo Fesmed, hanno scioperato il 16 settembre, con richieste di misure urgenti per migliorare il trattamento del personale. Anche la Federazione italiana dei medici di medicina generale ha minacciato interruzioni di attività.

Il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici e dei chirurghi, Filippo Anelli, ha inviato una lettera alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per denunciare l’aumento delle violenze. Nonostante i progressi normativi, Anelli ritiene che l’organizzazione della sicurezza debba essere rafforzata.

Tra le varie proposte, Anelli ha suggerito di arrestare in flagranza differita chi compie violenze, grazie alla registrazione delle immagini, avanzando poi l’idea di un “daspo sanitario” per escludere chi aggredisce il personale dall’accesso gratuito alle cure programmate per almeno tre anni.

La proposta del daspo, inserita in un disegno di legge recentemente presentato dal senatore di Fratelli d’Italia Ignazio Zullo, è stata tacciata di incostituzionalità da alcuni esperti di medicina legale, che sottolineano che il diritto dei dipendenti a un luogo di lavoro sicuro non può essere messo in secondo piano, ma che allo stesso tempo non si possa mettere a rischio il diritto alle cure.

«Qua stiamo parlando della salute, che è una cosa diversa e intoccabile», dice Pavan, secondo cui il daspo è un esempio della scarsa attenzione alla condizione psico-fisica di medici e infermieri da parte delle istituzioni, che sta andando a compromettere anche la qualità stessa dell’assistenza sanitaria.

«Ci si sente impotenti perché vediamo il disinteresse nei confronti di quello che sta accadendo, anche da parte della politica. Bisogna chiedersi se il governo è interessato a offrire prestazioni sanitarie di livello».

Gli interventi

Per intervenire immediatamente molte associazioni hanno proposto una formazione più adeguata da parte delle aziende sanitarie su come affrontare al meglio situazioni di pericolo, in modo da mitigare i comportamenti aggressivi.

Prima o poi, però, è evidente che sarà necessario che le istituzioni intervengano in modo più strutturale, secondo Pavan: «Siamo sottopagati, con tante responsabilità, una vita completamente a servizio dell’ospedale. E poi veniamo anche picchiati. Chi ce lo fa fare? Ma anche al di là di questo sentimento di rabbia, ad oggi l’unica cosa che vorremmo è aiutare i nostri colleghi. La sensazione è che ci si aspetti sempre da parte nostra l’errore, ma dall’altra parte chi è che ci ripara da quello che invece qualcuno potrebbe fare a noi?».

© Riproduzione riservata