La riforma Calderoli sarà difficile da realizzare, per una serie di motivi non solo economico-tecnici, ma anche politici. Le regioni del nord, infatti, potrebbero opporsi alla sottrazione di risorse maturate nel proprio territorio – come teoricamente previsto dalla legge – a fini perequativi verso quelle del sud
È stato rilevato da più parti come la legge sull’autonomia differenziata rischi di penalizzare le regioni del Sud. Ma la normativa voluta dal ministro Roberto Calderoli potrebbe scontentare anche quelle del Nord.
La legge Calderoli
La legge Calderoli, attuativa dell’articolo 116, comma 3, della Costituzione, prevede la possibilità di riconoscere alle regioni che ne facciano richiesta ulteriori forme di autonomia nelle materie ivi indicate, dopo una trattativa col governo e il raggiungimento di un’intesa.
La legge disciplina la relativa procedura, cui intervengono diversi soggetti istituzionali. Il presidente del Consiglio può limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie e funzioni, a tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica.
Il trasferimento di una serie di competenze che riguardano diritti civili e sociali è subordinato alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep), soglie minime di servizio da garantire su tutto il territorio nazionale. I Lep vanno fissati entro 24 mesi dall’entrata in vigore della legge, definendo costi e fabbisogni standard. Fino a quando ciò non sarà avvenuto, non si potrà procedere ad alcun trasferimento.
Le risorse per finanziare le funzioni da attribuire alle regioni che vogliano autonomia deriveranno da loro compartecipazioni a tributi erariali maturati nel proprio territorio. Inoltre, se anche solo una regione chiederà una competenza Lep, lo stato dovrà finanziarla anche per quelle che non l’abbiano richiesta, e il trasferimento rimarrà bloccato finché le risorse necessarie non siano state individuate, mantenendo comunque invariata la spesa pubblica.
Le regioni del Sud
L’autonomia differenziata, come prevista dalla legge Calderoli, è difficile da realizzare, per motivi sia tecnico-economici sia politici. Innanzitutto, non è agevole passare da un sistema di finanziamento basato sulla spesa storica a uno fondato sulla determinazione di fabbisogni e costi standard di ogni bene e servizio, tenendo conto della realtà delle diverse amministrazioni locali.
Se vi si riuscisse, ci sarebbe un ostacolo ulteriore. Il trasferimento di funzioni alle regioni che le hanno richieste, infatti, può avvenire solo dopo lo stanziamento delle «risorse finanziarie volte ad assicurare i medesimi livelli essenziali delle prestazioni sull’intero territorio nazionale», dunque anche alle regioni che non hanno voluto l’autonomia.
Il Sud potrebbe teoricamente ricevere più fondi, dato che la sua spesa storica è sempre stata bassa, ma servirebbe un notevole aumento di spesa pubblica (lo Svimez stima circa 100 miliardi di euro). Tuttavia, da un lato, la legge dispone che dalla stessa e dalle conseguenti intese «non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica»; dall’altro lato, l’Italia non può permettersi altra spesa, per gli impegni derivanti dal nuovo Patto di stabilità Ue.
L’opposizione del Nord
Per tentare di garantire la tenuta dei conti pubblici, la legge stabilisce che, se, nel corso del monitoraggio annuale, la Commissione paritetica fra lo stato e la regione dotata di autonomia riscontri ad esempio che quest’ultima – magari grazie a una buona gestione – ha un eccesso di risorse rispetto ai propri fabbisogni, il ministro dell’Economia proceda, su proposta della Commissione, a ridurre le aliquote di compartecipazione al gettito erariale che la regione matura sul proprio territorio. Ciò per consentire allo stato di finanziare con quell’eccesso di risorse le regioni più bisognose, a fini di solidarietà.
Ma qui iniziano i problemi politici. Come spiega l’Osservatorio dei conti pubblici, la legge Calderoli trae origine «dall’intenzione di alcune regioni del Nord Italia di trattenere all’interno del proprio territorio una quota maggiore di risorse tributarie e contributive che da quello stesso territorio hanno avuto origine».
Se le regioni che riescono ad accumulare risorse, grazie a crescita economica o efficienza della spesa, non potessero trattenerle, si creerebbe un cortocircuito. Esse sarebbero disincentivate a gestioni virtuose; soprattutto, in sede di Commissione paritetica, potrebbero opporsi alla sottrazione delle proprie risorse da parte dello stato, facendo inceppare i meccanismi perequativi previsti dalla legge.
Dunque, la legge scontenta sia le regioni del Sud, che rischiano di vedere accentuati i divari, sia quelle del Nord, le cui aspettative sarebbero tradite, e penalizza anche cittadini e imprese, poiché la frammentazione a livello regionale amplifica la burocrazia normativa e amministrativa.
Dunque, a chi giova questa Autonomia differenziata?
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