Il caso Artem Uss è il paradosso che pesa sulla coerenza del ministro nella vicenda di Abedini: Nordio ha il potere di non attivare la procedura, se ritiene che la domanda vada respinta; ha il potere di chiedere l’applicazione di misure restrittive della libertà o ha la facoltà di chiederne revoca, senza che l’autorità giudiziaria abbia alcuna discrezionalità
Nel caso Artem Uss, non aveva richiesto la custodia cautelare in carcere dell’estradando. Il procuratore generale non aveva impugnato con ricorso per cassazione la decisione della Corte d’appello di Milano, che aveva concesso all’imprenditore russo gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, ritenendola pienamente conforme alla legge. In compenso, dopo la fuga di Uss dalla sua abitazione, avvenuta all'indomani del via libera all'estradizione negli Usa, il ministro della giustizia aveva esercitato l’azione disciplinare nei confronti dei tre consiglieri d’appello, “rei” di avere perpetrato una «grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile».
A giudizio unanime di magistrati e avvocati, si era trattato di un’inedita e pericolosa interferenza del Ministero nell’esercizio della giurisdizione. In quel caso, i magistrati si erano infatti limitati ad applicare la legge ed è un principio pacifico – corollario della separazione dei poteri – che «l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non danno luogo a responsabilità disciplinare».
Al fine di superare presumibili imbarazzi diplomatici, Carlo Nordio aveva cercato di addossare la colpa ai magistrati. Com’era prevedibile, gli è andata male, perché il Consiglio Superiore della Magistratura ha adottato l’unica decisione possibile: ha assolto i tre giudici con formula piena, perché l’azione disciplinare era destituita di ogni fondamento.
Suona quindi (quanto meno) bizzarro che oggi, un autorevole esponente dello stesso governo, il ministro Tajani, dinnanzi al caso di Mohammad Abedini Najafabadi, affermi che «spetta alla magistratura decidere sui domiciliari». Ma come? Oggi che magari la scarcerazione del cittadino iraniano potrebbe giovare nella trattativa diplomatica per ottenere la liberazione di Cecilia Sala o, quanto meno, il miglioramento delle sue condizioni di detenzione, ci si appella ai magistrati?
La verità è che la questione è prima di tutto politica: l’estradizione, pur avendo subito un’evoluzione significativa nel corso dei secoli, continua a essere un’istituzione essenzialmente politica. Nei procedimenti di estradizione, il codice di procedura penale italiano e le stesse convenzioni internazionali riconoscono un ruolo decisivo al ministro della giustizia.
Questi ha il potere di non attivare la procedura di estradizione, se ritiene che la domanda vada respinta; ha il potere di chiedere l’applicazione di misure restrittive della libertà e, se queste sono state applicate, ha la facoltà di domandare la revoca (in tal caso, l’autorità giudiziaria non ha alcuna discrezionalità e deve disporre la fine della misura); infine, ha il potere, a fronte di una valutazione positiva dell’autorità giudiziaria, di non concedere l’estradizione sulla base di valutazioni di opportunità.
E, allora, l’auspicio è che il governo non scarichi sulla magistratura un ruolo che non le compete. Per una volta, è nelle condizioni di esercitare le sue prerogative e adottare le decisioni che portino a ottenere un obiettivo primario per il paese, ossia la liberazione di Cecilia Sala. Il fatto che la partita sia stata incardinata a Palazzo Chigi e non in via Arenula, lascia aperto qualche spiraglio di speranza.
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