Con incredulità e, confesso, con un certo fastidio, mi è occorso di leggere, a firma di qualche saccente editorialista, severi, accigliati rimbrotti all’indirizzo di chi, nel voto parlamentare sul giudice costituzionale mancante, ha praticato l’ “Aventino” (tra virgolette). Assimilandolo a un gesto irriguardoso verso le istituzioni, parlamento e Consulta, e a un comportamento dal sapore rinunciatario, passivo, ostruzionistico. Come di chi si sottrae a un propositivo confronto politico.

È l’esatto contrario ed è quasi imbarazzante dovere argomentare l’evidenza. Ma tant’è. Ci proviamo. Anche perché sembra indulga a tale equivoco lo stesso Carlo Calenda. Una premessa: è oziosa e fuorviante la disputa storico-semantica sull’Aventino. Già non è chiaro il riferimento storico: Aventino antico di epoca romana o Aventino degli anni Venti del Novecento? Quello della plebe in reazione ai soprusi dei patrizi 500 anni prima di Cristo o l’astensione dai lavori parlamentari praticata nel 1924 dagli oppositori al fascismo dopo il rapimento di Giacomo Matteotti? Tutti paragoni scomodati impropriamente.

Tattica vincente

Lasciamo stare il nome e il precedente e concentriamoci sulla cosa. Ovvero sulla decisione, finalmente unitaria, di non partecipare al voto per l’elezione del giudice della Consulta tuttora mancante e per il quale la maggioranza puntava su Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico di Giorgia Meloni.

A ben vedere, l’Aventino, nella sua versione censurabile di omissione dall’esercizio di una responsabilità istituzionale, va semmai imputato alla maggioranza, sottrattasi al dovere costituzionale di dialogare con l’opposizione su figure idonee a un alto ruolo di garanzia. Per poi ripiegare sulla scheda bianca una volta appurato di non disporre dei numeri per imporsi.

Banalmente, quella delle opposizioni, è stata una tattica parlamentare, legittima e collaudata, rivelatasi politicamente efficace e vincente per scongiurare un colpo di mano della maggioranza a fronte di una indebita, doppia forzatura. Senza precedenti, nel metodo e nel merito.

Il metodo: una prepotenza, il rifiuto di discuterne con le opposizioni, in contrasto con il dovere chiaramente inscritto e prescritto nell’alto quorum stabilito in Costituzione. Il merito: uno stretto collaboratore di Meloni e, di più, l’autore della più controversa «madre di tutte le riforme», quella del premierato assoluto, che, a detta dei più autorevoli costituzionalisti, affosserebbe la democrazia parlamentare e minerebbe principi cardine della Costituzione, compreso quello della separazione dei poteri. Con il manifesto conflitto di interessi legato alla circostanza che Marini, di qui a breve, sarebbe chiamato a vagliare la costituzionalità della riforma – unilaterale e di parte – da lui stesso stilata.

Difetto di coscienza

Si sono evocati precedenti di giudici costituzionali che hanno avuto, in precedenza o a seguire, ruoli politici o di governo. Ma nessuno era uomo di staff del premier. E comunque – non me ne voglia Marini – trattasi di studiosi, uomini di diritto di singolare levatura quali Vassalli, Elia, Mattarella, Amato, Flick, Barbera. Uomini che vantavano un prestigioso curriculum e dotati di personalità tali da poter escludere che essi potessero non dimostrarsi equanimi nel giudizio e farsi dettare i comportamenti da padrini politici.

Il blitz, ancorché fallito, è tuttavia l’ennesima dimostrazione di un radicale difetto di coscienza e di cultura costituzionale della maggioranza di governo, che vieppiù avvalora e acuisce la preoccupazione per gli strappi al tessuto costituzionale, per la deriva verso la cosiddetta “dittatura della maggioranza”.

Vi è un ulteriore profilo della questione. Chi un po’ conosce la tradizione e la prassi che informano il lavoro dell’Alta Corte sa bene che esse si caratterizzano per una esemplare collegialità. Ebbene domando: se la palese inopportunità di quella nomina non la comprende la destra, con la sua protervia e ostinazione, dovrebbe almeno avvertirla lui, l’interessato.

Con quale animo, una volta eletto, egli potrebbe svolgere il suo mandato dentro quel collegio? Come potrebbe pensare che l’atto di forza di una nomina tanto marcata politicamente quanto motivatamente contrastata non incida sulla qualità delle relazioni con i suoi colleghi membri della Consulta? Dovrebbe essere lui a fare persuasi i suoi supporter politici che, così facendo, si porrebbero i presupposti per un contesto ambientale, dentro la Corte, suscettibile di instillare imbarazzo in lui e nei colleghi giudici. Un contesto inidoneo ad assicurare serenità e fiducia nell’autonomia del più alto organo di garanzia costituzionale.

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